Ambiente

ArcelorMittal dice no al governo. L’ex Ilva prosegue il suo calvario

Il summit tra il colosso franco-indiano e l’esecutivo di lunedì 8 gennaio segna la rottura definitiva delle trattative. Lo stabilimento di produzione dell’acciaio va verso il commissariamento e un futuro sempre più incerto
Credit: ANSA/LUCA ZENNARO  

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9 gennaio 2024 Aggiornato alle 16:00

Fumata nera al termine di un lungo quanto complicato vertice tra ArcelorMittal, il socio privato di Acciaierie d’Italia, e il governo italiano, tenutosi a Palazzo Chigi lunedì 8 gennaio.

ArcelorMittal ha respinto il progetto dell’esecutivo e fatto sapere di non essere disposta a investire in Acciaierie d’Italia (Adi) e acquisire una partecipazione di controllo della tristemente nota ex Ilva di cui è azionista di maggioranza.

Dopo il no dei franco-indiani alla ricapitalizzazione, l’ipotesi più attendibile, scrive il Sole 24 Ore , è che si apra un contenzioso tra lo Stato italiano e ArcelorMittal per il non rispetto degli impegni contrattuali e la messa in amministrazione straordinaria dell’ex Ilva con l’introduzione di nuova liquidità.

Ma per far questo bisognerà aprire un tavolo negoziale con Bruxelles sugli aiuti di Stato, una cosa tutt’altro che scontata.

C’è poi la necessità di trovare un nuovo socio privato dopo le definitive rottura e uscita di scena di ArcelorMittal.

Circola il nome di Arvedi SpA, la società italiana operante nei settori della metallurgia, siderurgia, informatica e ingegneria con sede a Cremona.

L’azienda franco-indiana aveva acquisito l’ex Ilva nel 2018 all’asta. Mirava a risanare una azienda spossata da crisi del comparto e da una serie pesantissima di indagini per danni ambientali. Il rilancio però non è mai partito.

Anche per questo, nel 2020 (governo Conte 2), lo Stato aveva deciso di innescare un percorso per nazionalizzare l’acciaieria di Taranto.

A rappresentare l’Esecutivo sedevano i ministri Giorgetti (Economia), Fitto (Affari Ue e Pnrr,), Urso (Imprese e del Made in Italy), Calderone (Lavoro) e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano. La delegazione aziendale di ArcelorMittal era guidata invece dal Ceo Aditya Mittal.

Presente anche l’Ad di Invitalia, Bernardo Mattarella. ArcelorMittal, il secondo produttore di acciaio al mondo, possiede il 62% di Adi, mentre l’agenzia di investimento statale Invitalia detiene il restante 38%.

All’apertura delle trattative il governo italiano ha annunciato l’intenzione di Invitalia di iniettare circa 320 milioni di euro in Adi per aumentare la sua partecipazione fino al 66%, ma ArcelorMittal ha rifiutato di offrire garanzie sugli investimenti aggiuntivi di cui Adi avrebbe bisogno.

«Il governo - si legge nel comunicato rilasciato al termine del vertice - ha preso atto della riluttanza di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche in qualità di azionista di minoranza».

I sindacati, che puntano a “un controllo pubblico” dell’acciaieria hanno chiesto e ottenuto la convocazione di un incontro col governo che si terrà giovedì 11 gennaio alle 19. Nel frattempo reagiscono duramente.

Il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, intervenendo su Rai Radio1 nella mattinata del 9 gennaio parla di «atteggiamento assolutamente inaccettabile» e aggiunge che si sta procedendo «nella direzione opposta rispetto alla responsabilità sociale che si richiede alle grandi multinazionali».

Per Fim, Fiom e Uilm, “l’indisponibilità di Mittal, manifestata nell’incontro con il governo, è gravissima, soprattutto di fronte alla urgente situazione in cui versano oramai i lavoratori e gli stabilimenti, e conferma la volontà di chiudere la storia della siderurgia nel nostro Paese”. Nell’incontro di giovedì si aspettiamo dal governo “una soluzione che metta in sicurezza tutti i lavoratori, compreso quelli dell’indotto”.

Si perpetua così una agonia infinita del mastodonte italiano dell’acciaio, al centro di gravissime polemiche legate da una parte al tasso di inquinamento che ha reso Taranto una delle città più contaminate al mondo, dall’altra alla crisi dell’occupazione con i circa 16.000 impiegati, tra fabbrica e indotto, costantemente in bilico lavorativo in una zona depressa e ad alto tasso di disoccupazione (nel I trimestre 2023, in Puglia, il tasso di disoccupazione 15-64 anni era pari al 13,6% - in Italia tra il 7 e l’8% - e il tasso di inattività 15-64 anni 42,3%, ndr).

Negli ultimi tempi all’affossamento quasi definitivo ha contribuito anche l’aumento dei prezzi dell’energia e il calo dei prezzi dei rotoli di acciaio laminato.

L’acciaieria è, quindi, da tempo a corto di liquidità e ha accumulato un’enorme quantità di debiti con i fornitori, in particolare con Eni. Da inizio dicembre funziona solo un altoforno dei cinque presenti visto che è stato fermato anche l’altoforno 2, uno dei due rimasti operativi. Sono moltissimi i lavoratori in cassa integrazione, altri vengono in fabbrica ma senza svolgere mansioni vista l’impossibilità di lavoro effettivo.

Tutta in salita, quindi, la mission dell’esecutivo che ripete da mesi il mantra “l’ex Ilva non chiude” ma ha davanti a sé percorsi iriti di ostacoli anche perché si calcola che per ripristinare la produzione e mantenere i posti di lavoro serva oltre un miliardo di euro.

Data la delicatezza della questione e il peso socio-politico della partita, non sono pochi a reclamare una discesa in campo della premier fin qui sostanzialmente defilata.

Per rintracciare un suo intervento diretto bisogna addirittura risalire a oltre un anno fa.

Il 30 dicembre 2022, da poco insediatasi primo ministro, all’interno della rubrica ‘gli appunti di Giorgia’ dichiarava che “l’obiettivo che ci diamo è farne una grande acciaieria verde, aumentando la produzione e recuperando le persone in cassa integrazione”. Dopodiché poco o nulla.

Arrivata a questo punto, la patata bollente ex Ilva probabilmente richiederà una sua presenza a partire, forse, dalla riunione dell’11 gennaio con i sindacati.

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