Economia

Perché le Big Four di consulenza voglio rivedere la propria organizzazione

Scandali e difficoltà comunicative fra i vertici di Kpmg, Ey, Pwc e Deloitte spingono a un ripensamento della governance interna, includendo membri indipendenti all’azienda
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8 gennaio 2024 Aggiornato alle 08:00

Con il termine partenariato si intende un accordo tra due o più parti che si impegnano a collaborare (possibilmente in un lungo periodo) per raggiungere un obiettivo comune. È una forma di collaborazione utilizzabile in una varietà di contesti, tra cui il mondo aziendale, il mondo accademico e quello non profit.

Una struttura simile offre vari vantaggi, principalmente legati alla condivisione e all’integrazione di risorse, competenze e rischi, ma necessita di un apposito controllo dall’alto capace di chiarire al meglio i ruoli di ciascun soggetto rientrante nella partnership. Si tratta di un modello efficace nelle realtà societarie di modesta entità, ma che, quando aumentano le dimensioni dell’impresa, rende «la leadership diventa sempre più distante dai partner».

Questo è il giudizio lapidario di Laura Empson, docente specializzata nella gestione delle società di servizi professionali presso la Bayes Business School dell’Università di Londra, nell’intenso dibattito sulla governance delle cosiddette Big Four (Kpmg, Ey, Pwc e Deloitte), ossia le 4 società di consulenza e revisione contabile più grandi e influenti al mondo. Si tratta di una vera e propria egemonia che ha permesso nel 2018 di generare entrate per circa 150 miliardi e il 40% del giro d’affari complessivo, vantando anche fra i propri clienti Governi (sia locali che statali), organizzazioni no profit e aziende di ogni lato del globo.

La caratteristica principale delle Big Four è il fatto di appartenere a una rete di società che condividono un nome comune, un marchio e standard di qualità. Dunque, ognuna di esse è parte a sua volta di un agglomerato di imprese gestite autonomamente, che hanno chiuso appositi accordi di partnership finalizzati a garantire che le società che ne fanno parte siano in grado di collaborare efficacemente tra loro.

Fra i vantaggi di una simile struttura organizzativa, spicca la possibilità di offrire una gamma più ampia di servizi ai propri clienti (revisione contabile, consulenza strategica, fiscale, legale ecc.), di operare in modo più efficiente e di ridurre i costi e, in terzo luogo, di mantenere elevati standard di qualità.

In questo contesto, ciascuna rete ha creato un ente per coordinare le attività delle imprese che ne fanno parte. In particolare, per Kpmg e Deloitte Touche Tomatsu, l’organismo di coordinamento è un’entità con sede in Svizzera, mentre per PricewaterhouseCoopers e per Ernst&Young, l’organismo di coordinamento è una società Uk Limited (o Ltd), ossia una società di capitali di diritto britannico corrispondente per molti aspetti alla nostra S.r.l.

Negli ultimi tempi, le burrascose esperienze delle Big Four hanno fatto emergere tutte le possibili carenze di una governance basata sul partenariato. Recentemente, infatti, un enorme scandalo ha colpito Pwc per il fatto che Peter Collins, ex partner di PwC, ha violato la fiducia del Governo australiano divulgando informazioni riservate sulle modifiche alle regole fiscali, ottenute nel 2015 in qualità di consulente del Governo federale australiano proprio in materia di contrasto all’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Questo atto ha permesso a PwC di ottenere un vantaggio competitivo sulle società concorrenti e di beneficiare di nuove commesse da compagnie tecnologiche, anche se la fuga di notizie ha decretato la sospensione di ben 9 partner e l’innesco di una indagine interna.

Una governance troppo ramificata rischia inoltre di amplificare la distanza del consiglio di amministrazione (l’organo di governo della società, responsabile della supervisione della sua gestione e responsabili direttamente nei confronti degli azionisti) e dell’amministratore delegato, nominato dallo stesso Cda come dirigente responsabile della gestione quotidiana di un’azienda. Un legame fondato sulla fiducia e il controllo diretto sulle scelte del proprio amministratore, che tuttavia in Ey ha visto alcune anomalie, dato che proprio l’amministratore delegato uscente Carmine di Sibio si è mostrato decisivo nella scelta del suo successore, lasciando a un consiglio di amministrazione decisamente troppo ingombrante per assumere decisioni (con ben 38 membri) solo la ratifica della nomina.

Gli Stati Uniti e l’Europa non hanno dubbi sulla soluzione necessaria per trovare una via d’uscita a simili problemi: la presenza nel consiglio di amministrazione di membri non esecutivi, indipendenti, esterni all’azienda. Parliamo di professionisti con una solida esperienza alle spalle e competenze specifiche, capaci di svolgere un ruolo di supervisione e di controllo sulla gestione della società, assicurandosi che sia gestita in modo eticamente responsabile e che persegua gli obiettivi a lungo termine a beneficio degli azionisti (anche di minoranza). Soggetti che quindi possono fornire un punto di vista indipendente e imparziale sulla gestione della società, utile per prevenire conflitti di interesse e garantire che il Cda prenda decisioni che siano nel migliore interesse dell’impresa.

Motivo per cui l’ultima edizione del Codice di Corporate Governance approvato dall’apposito comitato nel gennaio 2020, ha raccomandato esplicitamente che le società più grandi abbiano almeno 3 membri non esecutivi indipendenti che siano in maggioranza in un organo di controllo posto a supervisione delle «questioni di interesse pubblico». Anche se già 2 anni prima i Paesi Bassi avevano imposto alle società di revisione degli enti di interesse pubblico di dotarsi di un organo indipendente per supervisionare le loro attività interne, analogamente a quanto è stato proposto dalla Public Company Accounting Oversight Board (Pcaob), agenzia federale statunitense nata nel 2002 per supervisionare il lavoro delle società di revisione contabile delle società quotate negli Stati Uniti.

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