Diritti

Divorzio: una sentenza a favore delle donne

In un Paese dove guadagniamo meno dei coetanei maschi e siamo sempre più povere (specialmente dopo la separazione), una pronuncia della Cassazione stabilisce che nell’assegno conta anche la convivenza
Credit: Polina Tankilevitch
Tempo di lettura 3 min lettura
20 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

C’è poco di cui rallegrarsi in Italia quanto a sussistenza femminile. Le donne italiane sono povere, da giovani, da madri e da anziane, rispetto ai loro coetanei maschi. E quando si separano sono quasi sempre loro, con rare eccezioni, a perderci in termini economici. Perché, semplicemente, spesso non lavorano o fanno lavori precari e malpagati.

Così, dopo la separazione, restano a volte prive di mezzi di mantenimento. Questo perché le sentenze su casi di separazione tendono sempre di più a non riconoscere il diritto allo stesso tenore di vita (giusto, anche se è un tema che riguarda soprattutto le coppie più ricche, non la maggioranza che invece deve sopravvivere) e a definire “autonoma” una donna che ha un minimo stipendio o magari un immobile.

Anche se questo non basta per avere una vita dignitosa. Per fortuna, una recentissima sentenza della Cassazione stabilisce che, in caso di divorzio e per stabilire l’assegno di mantenimento, si deve considerare anche il periodo di convivenza.

Si tratta di un riconoscimento molto importante, perché, oltre ai 3 anni che passano dalla separazione al divorzio, spesso le coppie convivono a lungo prima di sposarsi. E tenere conto solo degli anni di matrimonio finisce per essere riduttivo e penalizzare soprattutto la donna.

Veniamo al caso in questione: la donna, moglie di un collaboratore e cugino di Lucio Dalla, aveva convissuto a lungo con il futuro marito, e durante la convivenza era nato anche un figlio. Questo aveva spinto la donna a fare scelte di vita più orientate alla cura della famiglia che alla professione. Scelte che l’hanno poi penalizzata successivamente, tanto da non avere di che mantenersi. Si tratta di una situazione molto diffusa e comune.

I giudici hanno tenuto conto anche di questa rinuncia a favore della famiglia. Una rinuncia che viene sinceramente troppo spesso accusata di essere una scelta di comodo, oppure del tutto sottovalutata. Come se la cura di uno o più figli non fosse un lavoro fondamentale. Come se non fosse vero che, in Italia, curare e avere un figlio è quasi una missione impossibile, i dati lo raccontano molto bene.

La conciliazione è aspra, difficile, la strada delle donne che vogliono fare figli e lavorare è davvero lastricata di amarezze, conflitto, spesso anche disperazione. E di scelte che spesso non sono neanche scelte, perché troppe donne non possono scegliere, sono costrette a lasciare perché lavorare non è conveniente oppure è impossibile.

Questa sentenza, dunque, riconosce l’importanza del lavoro fatto in favore della famiglia. E allunga i tempi di questo riconoscimento, estendendoli alla convivenza, che viene in maniera moderna e corretta equiparata al matrimonio.

Siamo nel 2023 ed era una sentenza veramente necessaria. Anche perché, diciamolo: ormai spesso a decidere di non sposarsi è la parte economicamente più forte, per evitare poi di perdere in un eventuale divorzio. E quasi sempre chi guadagna di più è lui. Una decisione contro cui la parte debole ben poco può fare.

È bene dire che le scelte di vita comune, con rispettive responsabilità, cominciano quando si va a vivere insieme in maniera stabile e continuativa. E quando, anche, nascono i figli. Che sia prima o dopo i fiori d’arancio, non importa.

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