Storie

Andrea Rubera: «Fede e omosessualità possono viaggiare insieme»

Il portavoce di Cammini di Speranza, associazione nazionale Lgbtq+ cristiana, ha raccontato a La Svolta qual è il rapporto tra Chiesa e comunità arcobaleno: quali passi in avanti sono stati fatti e quali ancora no
Andrea Rubera
Andrea Rubera
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13 dicembre 2023 Aggiornato alle 13:00

Lo scenario è quello di un’Italia che ha ancora molti passi da compiere sul rapporto fra Chiesa e omosessualità. Ma perché se ne discute ancora così poco? E a che punto siamo oggi?

Ne ha parlato Andrea Rubera, portavoce di Cammini di Speranza, l’associazione nazionale di persone Lgbtq+ cristiane, a La Svolta, raccontando la sua fede, il suo significato, spiegando cosa vuol dire essere una famiglia di 2 padri e 3 figli in Italia. E, passando per uno dei libri che meglio descrivono la storia di questo tema (Credenti LGBT+. Diritti, fede e Chiese cristiane nell’Italia contemporanea, Matteo Mennini, Carocci editore, 164 pagine, 18 euro), ha spiegato quelli che dovrebbero essere gli obiettivi da raggiungere.

Secondo lei, che è cattolico e praticante, cosa vuol dire oggi credere?

Le posso dire cosa significa per me. Sono cresciuto in una famiglia cattolica progressista e in una parrocchia molto attiva già negli anni ‘70 - ‘80 anche sul fronte sociale: pensi che è stata una delle prime a collaborare con la Onlus Fede e Luce, l’associazione di volontariato che aiuta le famiglie che convivono con disabilità di uno dei componenti. Per me era un punto fermo, facevo tutto, dall’animatore allo scout. Lì ho maturato il mio concetto di fede: un’esperienza comunitaria, non individuale, non solo almeno.

In quale momento, se c’è stato, si è sentito “diverso” all’interno della sua comunità?

Al liceo, quando ho preso consapevolezza della mia omosessualità. Mi ha creato dei problemi con la fede perché la mia percezione di questa ha cominciato a essere diversa. Mi spiego, avevo 14 anni ed era la fine degli anni ’70, non c’era internet e tutto ciò che sapevo era che ciò che veniva raccontato. E di omosessualità si parlava soltanto in 3 accezioni: come macchietta, come sessualità rubata, nascosta o perché si iniziava a parlare della piaga dell’Aids. Così decisi di tenerla nascosta. Ci fu un evento, però, che mi fece vacillare più di altri. In una riunione del gruppo post cresima in cui emerse il concetto di omosessualità, una ragazza affermò: «Vabbè, ma andranno sicuramente all’inferno: perché la sessualità è una forza troppo forte e non potranno evitarla». Quella frase mi è suonata come una condanna e mi sono allarmato.

E quando, poi, si è risentito “uguale”?

Molti anni dopo, c’è stato un momento in cui ho sentito davvero di essere parte di una comunità: però ripeto è stato molto tempo dopo. Avevo già Dario al mio fianco, mio marito, e avevamo già la nostra prima figlia. Siamo entrati nel cammino Mondo, comunità e famiglia e lì ho percepito davvero di essere una famiglia come le altre. Ho (r)imparato che l’esperienza di ascolto non giudicante è ciò che ti fa sentire veramente uguale.

Con suo marito ha 3 figli che state crescendo all’interno della comunità cattolica. Quali sono state le difficoltà di questa scelta?

Quando è nata la mia prima figlia, la difficoltà più grande è stata capire come introdurla in parrocchia. Avevamo paura che venisse discriminata per il fatto di essere parte di una famiglia arcobaleno. Io mi ero riavvicinato da poco alla fede, precisamente nel 2000, in seguito di un brutto incidente in cui ho rischiato di morire. Stavo già con Dario, dall’86, ma fino ad allora avevo sempre considerato questo amore incompatibile con il mio credo. Prima di entrare in sala operatoria mi sono appellato a Dio proprio per questo: io ero ossessionato di morire in peccato. I medici mi hanno salvato e il periodo fra l’ospedale e la convalescenza mi è servito per capire che non volevo più fingere. Abbiamo cominciato un percorso di coming out, ci siamo avvicinati nuovamente alla fede e abbiamo preso contatti sia con gruppi di omosessuali cristiani che con alcuni sacerdoti illuminati che ci hanno saputo indirizzare. Oggi siamo felici; tutti e 3 i figli sono ben inseriti in parrocchia, sono scout, chierichetti e in qualche modo siamo ben inseriti anche noi, anche se c’è ancora tanto da fare.

Crede che in questo Roma sia una città che rispecchia tutto il resto del Paese oppure no?

Roma rappresenta tutto e il contrario di tutto. In tutta Italia ci sono avanguardie e retrovie sul rapporto fra chiesa e comunità Lgbtq+. Anche a Roma abbiamo parrocchie fondamentaliste dove per esempio viene chiesto di non fare la comunione alle coppie gay e lesbiche, e i battesimi vengono effettuati a porte chiuse. Altre, invece, come la mia in cui si è molto avanti. Il tentativo di Papa Francesco credo sia proprio questo: cercare di cambiare la prospettiva, tenendo insieme gli opposti. Lui sta facendo molto sul tema della relazione e della semantica, se pensa che è il primo pontefice a utilizzare il termine gay si capisce quanto dall’ideologia stiamo passando alla realtà.

E, più in generale, a che punto siamo in Italia e nel mondo riguardo al livello di inclusione della comunità Lgbtq+ all’interno della Chiesa Cattolica?

Oggi siamo in un guado: la chiesa si trova in mezzo tra cambiamento e paura. Ci sono diverse diocesi nel mondo che sono estremamente oppositive, e anche nel recente sinodo hanno espresso la contrarietà a modifiche sulla dottrina sul tema. Poi, invece, abbiamo vescovi che già sono favorevoli alle benedizioni per le coppie omosessuali, soprattutto in Belgio e in Germania. Al contrario, questo nelle diocesi africane sarebbe impensabile; e si arriva all’est Europa dove l’espressione delle persone Lgbtq+ viene considerata propaganda. Come dice Antonio Spadaro, la Chiesa cerca di tenere insieme gli opposti, ed è esattamente così.

Papa Francesco a fine ottobre ha incontrato suor Gramick e l’ha elogiata per il suo impegno negli anni per la pastorale Lgbtq+. C’è chi parla di svolta positiva. Secondo lei è così, o è semplicemente un caso isolato che finirà presto nel dimenticatoio?

Credo che questo evento segni l’inizio di un nuovo capitolo di cui la direzione è già chiara; il problema è arrivare al cambiamento della dottrina per avere una piena inclusione delle persone Lgbtq+ nelle comunità cattoliche. Nel catechismo si parla ancora di “disordine” a proposito delle persone Lgbtq+. Ma come possiamo arrivare a questo cambiamento? Il tema è favorire il ritorno delle persone omosessuali nelle loro comunità di provenienza, favorire l’incontro, farle sentire a casa. Da questo incontro, da questo ritorno possono nascere le basi per una maturazione della comunità più vasta e, quindi, il cambiamento del catechismo.

Recentemente un passo in avanti è stato il pronunciamento della Congregazione per la dottrina della fede riguardo i battesimi per i figli di coppie omosessuali e per le persone transessuali, un documento che mette nero su bianco comportamenti a cui tutte le parrocchie devono attenersi, uscendo, quindi, dalla sfera della discrezionalità. Papa Francesco si è sempre dimostrato molto sensibile all’ascolto di tantissime persone che collaborano con la comunità Lgbtq+ e sta includendo questo tema all’interno del dibattito della Chiesa. Lo dimostra, a esempio, la presenza di padre James Martin all’ultimo sinodo, un sacerdote gesuita che è impegnatissimo nella pastorale Lgbtq+.

In che occasione ha conosciuto il Papa? Ci vuole raccontare la sua storia?

È stato proprio nel periodo in cui con mio marito non sapevamo se e come introdurre la nostra prima figlia a un percorso per bambini in parrocchia. Papa Francesco era stato eletto da 2 anni e io frequentavo un percorso in una parrocchia di Roma per persone che si sentivano escluse. Il parroco mi chiese se volevo andare con loro a una messa a Santa Marta celebrata dal Papa, io accettai chiedendo se potevo portargli una lettera. “Chiedo consiglio per mia figlia che ha 3 anni e mezzo, vorrei introdurla in un percorso in parrocchia per bambini, ma non so se faccio la cosa giusta”, avevo scritto raccontando la storia della nostra famiglia. Dopo qualche giorno mi cominciarono ad arrivare telefonate da un numero sconosciuto a cui non rispondevo, finché alla terza ho voluto vedere chi fosse. Era Papa Francesco e ho ancora ben chiare le sue parole: «Ho letto la sua lettera, volevo capire la richiesta, ha avuto problemi con il parroco?» e poi mi consigliò di parlarne direttamente con lui e che sarebbe stata un’esperienza incredibilmente positiva. È stato un gesto che mi ha colpito molto perché si vedeva che non era una telefonata di circostanza, ma un reale desiderio di aiutarmi come persona, a partire dalla mia condizione esistenziale.

C’è un libro, più di altri, che tratta in maniera puramente storica l’evoluzione del rapporto fra omosessualità e cattolicesimo negli ultimi 30 anni: Credenti LGTB+ di Matteo Mennini. Nelle pagine mette in luce movimenti ed eventi di cui anche i media parlano poco, se non in casi eccezionali. Secondo lei, innanzitutto, perché? E poi se questo silenzio influisce il punto in cui ci troviamo oggi?

Il silenzio deriva da 2 aspetti opposti. Uno riguarda la questione Lgbtq+ coniugata con la fede: è sempre stato un argomento tabù perché penso i media credessero che potesse infastidire la Chiesa istituzione; quindi era complicato trovare qualche giornalista che volesse ascoltare le persone della comunità dei cristiani Lgbtq+ con rispetto per poi raccontare le storie. L’altro motivo è esattamente il contrario: spesso se chiedi a un giornale di parlare del rapporto fra fede e omosessualità non trovi riscontro perché non fa notizia la questione in sé. Si è sempre a caccia del clickbait, della notizia scoop. Fa notizia una suora lesbica, un sacerdote che ha “sposato” una coppia gay magari, ma senza un caso difficilmente i media parlano. L’ultimo punto riguarda il dibattito all’interno della Chiesa dove spesso le persone Lgbtq+ sono rappresentate per intermediazione dei loro genitori o di rappresentanti della Chiesa istituzione stessa. Del libro che cita, noi, come Cammini di Speranza, l’associazione nazionale di persone Lgbtq+ cristiane di cui sono portavoce, ne abbiamo promosso la pubblicazione proprio per questo, perché riesce a fare il punto di 30 anni del cammino dei gruppi Lgbtq+ che ha portato a dove siamo oggi.

Il saggio inizia a Budrio nel giorno dello scandalo in cui una coppia omosessuale dopo l’unione civile è entrata in chiesa per la benedizione. Da lì sono nate polemiche, nonché la sospensione del sacerdote. E allora viene da chiedersi: cosa spinge una persona, nel 2023, di fronte a questi fatti, a voler far parte di una comunità come quella ecclesiastica?

È una domanda che pongono in molti. Noi credenti Lgbtq+ siamo criticati sia da alcune frange cattoliche che ci rimproverano di non essere fedeli al catechismo, sia anche da alcune parti della comunità Lgbtq+ perché siamo forse considerati “fiancheggiatori” di una Chiesa che non include, ma non è così. Questo ritorna all’inizio del mio discorso, l’esperienza di fede va inserita in un’esperienza comunitaria, non è far parte di un club, ma di una famiglia. Come può accadere per un genitore, con cui a volte non si concorda con le decisioni o con gli indirizzi, però alla fine si fa parte di questa famiglia. Quindi il senso del mio rimanere agganciato al tema cattolico è quello di aver avuto un buon nutrimento e pensare che c’è del buono, che si può cambiare qualcosa, ma che il cambiamento può avvenire solo con la partecipazione.

Lei lo sa che molte persone sono addirittura convinte che gli omosessuali non possano essere credenti? Come mai secondo lei? È semplicemente mentalità antica o qualcosa di più grande?

Sì, è vero c’è questa percezione, ma non è totalitaria. Una parte della Chiesa non lo vive e parte sì. È questione di contesto: quello di considerare il tema della fede come una questione identitaria. Non è nemmeno il concetto di omossessualità a essere più l’ostacolo, ma l’omosessualità all’interno di una vita affettiva. L’omosessuale la Chiesa lo prevede, purché sia pentito. È la coppia, la famiglia che non è prevista. Sempre per il contesto: il catechismo cosa dice? Che la sessualità è concessa solo all’interno del matrimonio fra uomo e donna e tutto ciò che non è all’interno di questo è sbagliato. Nella mia esperienza personale di Verità e Bellezza, so invece che fede e omosessualità possono tranquillamente viaggiare insieme.

Quanti gruppi di credenti Lgbtq+ esistono oggi? Ne ha “contezza”? È una comunità che si “parla” e condivide momenti e valori?

Ci sono all’incirca una trentina di gruppi e sono tutti legati da una rete informale. Esistono poi delle associazioni nazionali. Ogni gruppo ha la sua sensibilità: alcuni hanno bisogno di protezione, altri magati di visibilità. Esistono delle reti sempre più estese come lo European Forum in LGBT Cristian Group, un’associazione europea che racchiude tutti i gruppi cristiani e che nel 2024 terrà la sua assemblea proprio in Italia, fino a una rete mondiale: il Global Network of Rainbow Catholics, un’associazione di cui Cammini di Speranza è socia fondatrice dal 2015.

Il libro di Mennini, tratta fino agli anni 2000, molto prima della salita di Papa Francesco (e si conclude con il World Pride). Sono passati 23 anni (quasi il tempo che Mennini descrive nelle sue pagine): cosa è cambiato?

Il World Pride ha segnato un punto di svolta clamoroso, io c’ero. È stato in concomitanza con il Giubileo e ricordo ancora la frase di Papa Giovanni Paolo II: «Roma è stata profanata», usò proprio questo termine. In quel momento aumentò la consapevolezza delle persone cristiane e venne organizzata una conferenza molto sofferta dal punto di vista organizzativo su fede e omossessualità. Doveva partecipare come relatore il vescovo francese Jacques Gaillot ma all’ultimo, a causa di uno “stop” arrivato dall’alto, presenziò senza intervenire. Da quegli anni a ora sono stati fatti tanti passi in avanti: c’è stata sempre più richiesta di contatti con i vescovi e di interloquire alla pari, sono nate reti di religiosi che si occupano della pastorale Lgbtq+ cristiane e infine i Sinodi hanno fatto moltissimo. Principalmente sono stati 3 quelli molto importanti. Quello tra 2014 e 2015 sulla famiglia, quello tra 2017 e 2018 sui giovani e, infine, quello globale iniziato nel 2023 e che si concluderà nel 2024. Mi ricordo che nel 2014 e nel 2015 abbiamo organizzato due conferenze alle quali hanno partecipato vescovi e religiosi di diversi paesi del mondo che avevano già attivato nei loro paesi delle pastorali inclusive per le persone Lgbtq+.

Lei è portavoce rappresentante dei cattolici omosessuali in Italia, da quanto? come ha iniziato questo percorso che l’ha portata qui, quali sono state e quali sono ancora le difficoltà che ha dovuto (e deve) affrontare?

Precisamente sono portavoce di Cammini di Speranza, una delle associazioni nazionali citate prima, dal 2015 ma frequento i gruppi di cristiani Lgbt+ dal 2001, da dopo l’incidente. Questo percorso e ruolo mi ha portato una grande crescita personale per ottenere la riconciliazione fra la mia fede e la mia omosessualità. Per quanto riguarda le difficoltà, quella maggiore a livello individuale è stata superare il concetto di Dio giudice e riconquistare il concetto di Dio padre. Per il gruppo, invece, sicuramente l’interazione con la gerarchia ufficiale della Chiesa, proprio perché fino all’elezione di Papa Francesco era una cosa impensabile, quasi impossibile.

C’è un episodio della sua vita che le ha fatto dubitare della sua battaglia

Premetto di non essere mai stato arrendevole, ma un momento di sconforto l’ho avuto nel 2010. Quell’anno non siamo riusciti a trovare a Roma nemmeno una parrocchia che volesse ospitare la veglia di preghiera contro l’omotransfobia. Chiedemmo un tavolo con la diocesi, parlammo con il vicariato di Roma e tutti ci dicevano che non era opportuno. Quello mi ha fatto dubitare un po’ di poter davvero cambiare l’istituzione della Chiesa. L’abbiamo organizzata lo stesso, ma all’aperto in piazza Navona.

E uno che, invece, le ha fatto dire “ok, continuo”

Le cito lo stesso esempio di prima, ma parto dalla fine. Il risultato della conferenza è stato un momento molto bello. C’era il dispiacere di non aver trovato spazio in una parrocchia, ma parallelamente quando ho visto l’ampia partecipazione mi sono sentito davvero parte di qualcosa di molto forte. Così ho continuato a credere nel percorso che avevamo cominciato.

Cosa servirebbe per riuscire a portare avanti in maniera concreta la battaglia di inclusione fra chiesa e omosessualità?

Principalmente due cose: molta formazione e altrettanto storytelling. Sul tema c’è parecchia confusione e i gruppi cattolici fondamentalisti hanno inculcato ad arte la fobia del “gender”; come se fosse in atto un’omosessualizzazione del mondo, attraverso una sorta di propaganda: è una bufala cosmica che non esiste. Quello che esiste è il fatto che le persone si sentono più libere di esprimersi: è per questo che sarebbe opportuni fare più informazione su cosa vivono le persone Lgbtq+. Per quanto riguarda invece lo storytelling, dovrebbe essere direttamente espresso dalle persone nella comunità, mentre invece si dà troppo poco la parola a loro. Si preferisce chiamare lo psicologo, l’esperto, il religioso e non la persona che potrebbe raccontare la sua esperienza. Le faccio un esempio che secondo me riassume bene il concetto: anche all’ultimo sinodo non c’era nemmeno una persona che ufficialmente si trova all’interno della comunità Lgbtq+. Magari in silenziosamente sì, ma apertamente no. Questo deve cambiare.

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