Diritti

I media sono vicini alla comunità Lgbtq+?

La risposta arriva da due ricerche Nielsen, condotte a livello internazionale e su un campione italiano, dalle quali emerge ottimismo ma con riserva
Credit: Marah Bashir/Unsplash
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
13 luglio 2022 Aggiornato alle 09:00

Media e pubblicità sono diventati più inclusivi nei confronti della comunità Lbgtq+. O forse no. A chiederselo, dandosi alcune risposte ma aprendo al contempo altrettante riflessioni, sono state due ricerche condotte da Nielsen.

La prima ha raccolto nel 2021 e nel primo trimestre del 2022, le risposte di circa 5.500 persone di Stati Uniti, Canada, Messico, Italia, Germania, Francia, Brasile, Spagna e Regno Unito, dalle quali è emerso che il 69% del pubblico Lbgtq+ globale ritiene che si stiano compiendo sforzi per migliorare l’inclusività nei media.

Di contro però un non trascurabile 27% afferma che il livello non sia di fatto migliorato. Insomma, bene ma si potrebbe fare meglio.

«La comunità Lbgtq+ in tutto il mondo continua ad affrontare sfide significative, ma il settore mediatico globale può svolgere un ruolo nel facilitare cambiamenti positivi e fornire una rappresentazione più accurata sia della nostra società in generale e sia delle persone Lbgtq+», ha dichiarato Sandra Sims-Williams, Nielsen’s Chief Diversity Officer.

Già, il ruolo dei media. Da sempre ci si interroga su quale sia e se tali mezzi debbano fungere da traino del cambiamento o, al contrario, essere spinti da ciò che accade naturalmente nella società.

Secondo la maggior parte dei sociologi, lo scambio dovrebbe essere ambivalente e la comunità Lbgtq+ lo conferma, visto che tra le maggiori richieste c’è che tv e pubblicità supportino la causa fungendo da cassa di risonanza e dando modelli positivi da seguire, ma solo se tali azioni sono sincere e non volte a cavalcare il trend del momento, come invece accade spesso, con accuse di rainbow washing che piovono copiose su molte teste.

Tornando alla ricerca, i contenuti in streaming sono considerati più inclusivi rispetto ad altri presenti in differenti piattaforme multimediali, compresi i social network. Anche qui, però, la strada verso la completa inclusione sembra ancora lunga visto che secondo quanto reso noto da Gracenote, la società di Nielsen specializzata nella categorizzazione dei media, a febbraio 2022 su oltre 817.000 titoli video presenti in servizi tv tradizionali e streaming soltanto 1.000 riguardavano il tema Lbgtq+ e tra il 2020 e il 2021 il numero di nuovi titoli riferibili a questo tema è diminuito da 50 a 36.

A livello macro secondo gli intervistati la situazione sembra indubbiamente migliore rispetto ad alcuni anni fa, quando in tv e sui mass media membri della comunità Lbgtq+ erano poco presenti o ridotti a caricature o macchiette. Non è però tutto oro quel che luccica, visto che tale ventata d’ottimismo non riguarda ogni categoria marginalizzata per l’orientamento sessuale. Tutt’altro.

I passi avanti si concentrano infatti quasi solo su identità gay e lesbiche, lasciando molti gruppi ampiamente sotto rappresentati. Per esempio, l’80% di uomini transgender e il 69% di bisessuali/pansessuali ritiene che le pubblicità non siano inclusive.

La seconda ricerca Nielsen è stata svolta a giugno 2022 e ha coinvolto 800 soggetti solo in Italia: 400 appartenenti alla comunità Lbgtq+ e altrettanti della popolazione rappresentativa totale. In questo caso ciò che salta all’occhio è una sensibilità al tema che nel nostro Paese cresce in modo inversamente proporzionale all’età. Il 31% degli intervistati manifesta infatti un forte interesse verso contenuti che tematizzano la loro identità, percentuale che sale al 42% negli under 34.

Per quanto riguarda le piattaforme streaming, Netflix è considerata la più inclusiva secondo l’82% del campione Lbgtq+. Le descrizioni e le immagini che accompagnano i titoli sono il principale driver di scelta dei contenuti offerti e oltre il 50% del target ritiene importante che ci siano più personaggi e attori a rappresentare la comunità.

I social network sono visti come un luogo in cui la rappresentazione dell’universo Lbgtq+ è organica. Stesso discorso per i media digitali, nei quale svetta Freeda, considerata tra i soggetti presi in esame il più inclusivo secondo il 66% delle persone intervistate.

Un dato che in parte stupisce visto che la stessa Freeda, nonostante faccia dell’inclusione il proprio carattere identitario fin dalle origini, sia stata spesso accusata proprio sui social network di trattare alcune tematiche con troppa superficialità, senza quasi mai entrare nel merito. Tra i media digital più consolidati menzioni d’onore per Vogue e Vanity Fair.

Anche la pubblicità in Italia sembra divenuta più inclusiva nell’ultimo biennio, almeno secondo il 71% del target Lbgtq+. A pensarlo sono soprattutto i giovani (83%), specialmente in relazione a quella fatta da influencer e social media e nei settori fashion e beauty.

In una società in cui il marketing tende a essere sempre più a personam, infine, il 23% degli intervistati della comunità pensa di essere stato targettizzato negli ultimi 2 anni in base all’identità sessuale ma solo il 36% si è sentito a proprio agio e il 50% reputa che le aziende non dovrebbero cercare di attirare l’attenzione di potenziali acquirenti seguendo tale parametro.

Nonostante l’utenza Lbgtq+ sia maggiormente interessata a ricevere messaggi affini al proprio stile di vita rispetto alla popolazione nel suo complesso, questi ultimi dati dovrebbero servire come spunto di riflessione a brand e altri operatori media, in vista di azioni future che mirino a un’inclusione reale e utile, magari pensate con gli stessi utenti della comunità e non calate dall’altro, onde evitare l’effetto rainbow washing, sempre tristemente in agguato.

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