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Emilia Romagna: i Centri di Assistenza e Urgenza sono davvero una rivoluzione?

La Svolta ha intervistato 2 medici del Laboratorio Salute Popolare di Bologna per capire meglio cosa sono i Cau e perché potrebbero portare a una «frammentazione della cura»
Credit: Gustavo Fring 

Dopo la pandemia da Covid-19 e le conseguenti difficoltà del personale sanitario nella gestione clinica e organizzativa, erano stati promessi ingenti aumenti al Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), data la sua importanza per la gestione delle criticità cliniche e in termini di diritto alla salute globale.

Con la legge di Bilancio dello Stato e la Manovra 2024, la percentuale del Pil dedicata alla sanità pubblica, secondo le associazioni di settore, non è stata all’altezza delle promesse della politica. Il 6° Rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale della Fondazione GIMBE evidenzia che, rispetto al 2022, la spesa sanitaria è aumentata del 2,8% (in termini assoluti di 3.631 milioni di euro) ma si è ridotta al 6,6% (dal 6,7%) in termini di percentuale di Pil.

Il modello emiliano per la salvaguardia della sanità pubblica

La sanità emiliana, da sempre riconosciuta come modello virtuoso in termini di avanguardia medica pubblica, è al centro di ammodernamenti del settore pubblico. Il 7 novembre, infatti, la Giunta dell’Emilia Romagna, ha annunciato l’approvazione alle Camere dell’Assemblea Legislativa, di un testo di legge che intende portare al 7,5% del Pil il finanziamento annuale del Ssn. Ora, il testo, sarà inviato alle Camere per essere iscritto tra gli atti depositati e saranno i singoli Uffici di Presidenza a decidere se avviare l’iter e assegnarlo alla commissione competente.

Per quanto riguarda la gestione regionale della prima emergenza, dal 1 novembre hanno avuto ufficialmente inizio le operazioni di “riordino dell’emergenza-urgenza” della sanità del territorio bolognese, per la gestione dei codici bianchi e verdi che, negli ultimi anni, sovraffollano i Pronto Soccorso territoriali, con la nascita (entro il 2023) di 30 Centri Assistenza Urgenza (Cau).

I Cau, sono strutture sanitarie territoriali in cui lavorano medici di assistenza primaria e infermieri che accolgono pazienti con problemi urgenti a bassa complessità, 7 giorni su 7, 24 ore su 24 con accesso diretto. Strutture territoriali, a regime per ogni Distretto Sanitario, che quando il percorso sarà completato, avranno un bacino d’utenza tra i 35.000 e i 75.000 cittadini.

“L’obiettivo, infatti, è garantire a tutti i cittadini la cura migliore e un percorso di assistenza personalizzato, in tempi rapidi e senza lunghe attese”, fa sapere la Regione. Per l’assessore alle Politiche per la salute, Raffaele Donini, il modello è «profondamente innovativo che potrebbe aprire una nuova strada nel Paese, in una fase in cui il servizio sanitario nazionale è costretto a cambiare, perché in ballo c’è la sua stessa sopravvivenza».

I Cau rappresentano una sperimentazione d’accesso alla prima emergenza di codici ospedalieri non gravi, alla luce del fatto che, secondo i dati, l’Emilia-Romagna, su un totale di 1 milione e 700.000 accessi l’anno in pronto soccorso, circa 1 milione (63%) sono codici bianchi e verdi che non richiedono ricovero.

Riorganizzazione del sistema di emergenza-urgenza della Regione Emilia-Romagna

Lunga vita alla sanità pubblica” è il titolo della campagna che ha accompagnato la riorganizzazione del sistema di emergenza emiliano e la nascita dei primi 30 Centri di Assistenza e Urgenza (Cau), che fanno parte della più ampia riorganizzazione delle cure primarie territoriali e del sistema di emergenza-urgenza regionale.

“Rappresentano il nuovo modello di sanità territoriale potenziata pensato per rispondere alla gran parte dei bisogni e delle urgenze a bassa complessità clinica e assistenziale, sgravando così i Pronto soccorso, dove far confluire solo i casi più gravi. Per una presa in carico più veloce e appropriata”, fa sapere la Regione. Sono già stati inaugurati i Cau di Vergato e Budrio, dove sono stati resi pubblici gli accessi dei primi 6 giorni di lavoro: da mercoledì 1 novembre a lunedì 6 novembre il Cau di Budrio ha accolto 230 persone; di queste, 39 (17%) sono state trasferite al pronto soccorso per la presa in carico. Nell’80% dei casi (183 persone) i pazienti, dopo le cure prestate, sono stati invitati a proseguire il percorso con il proprio medico curante. Il restante 3%, pari a 8 persone, ha preferito allontanarsi prima di ricevere le cure.

Parlano i medici del Laboratorio Salute Popolare di Bologna: il rischio con i Cau è la frammentazione della cura

In merito a questa nuova tipologia di strutture e alla sua capacità d’impatto sulla salute pubblica, mediche e medici del Laboratorio Salute Popolare di Bologna (Lsp), intervistati da La Svolta, non condividono l’entusiasmo dei vertici della sanità regionale.

In un comunicato, i professionisti del laboratorio avevano espresso preoccupazione “da un lato per il contenuto di scelte come questa, dall’altro per le modalità di scelta, per cui mai si interpellano tutte quelle figure che nelle varie strutture sanitarie del territorio e negli ospedali lavorano o le attraversano e quindi si scontrano con gli innumerevoli limiti che li caratterizzano”.

La dottoressa Marica Greco, specializzanda in Medicina Generale e attivista del Lsp, ha dichiarato a La Svolta che «quello che non funziona è da un lato l’approccio di disinvestimento sul territorio e centralizzazione “ospedaliera” della cura, dall’altro la creazione di strutture con compiti di diagnosi e cura non chiari, che rischiano di agire prevalentemente da “gestione di flussi” e “rimbalzo dell’utenza”. In questo quadro, i pazienti rischiano di essere ancora più isolati dal sistema sanitario, in un pericoloso meccanismo di “autodiagnosi e autocura” che si innesca nel momento in cui è lasciato in capo alla persona decidere sola (qui in urgenza, e in altri contesti non tali) come e dove curarsi. La conseguenza è ancora una volta una frammentazione della cura».

Il tema della presa in carico dei pazienti e di una reale medicina di prossimità è al centro delle preoccupazioni di chi di salute si occupa quotidianamente, portando avanti non solo rivendicazioni ma percorsi di sostegno clinico, psicologico e cure primarie, come ha spiegato Jacopo Bonini, specializzando in Cardiologia, membro del Lsp: «noi ripartiremmo dal territorio e dalla comunità che lo abita, in cui crediamo fortemente. E non è solo uno slogan: questo significa investire in percorsi assistenziali di prossimità integrati nelle comunità, siano esse vicine o lontane dagli ospedali centrali, e per le persone marginalizzate, includendo all’interno di questi percorsi tutte le figure che si occupano di salute e assistenza sociale, inclusi i pazienti stessi. Noi diamo valore centrale ai determinanti sociali della salute, alla casa, al reddito, al lavoro non povero. E lottiamo perché questa visione possa contaminare il servizio sanitario nazionale, per rimettere le persone al centro e non le malattie».

I Cau, per gli attivisti sanitari del Laboratorio Salute Popolare, rappresentano una pericolosa inversione di rotta nell’immaginare la sanità territoriale, rispetto a progetti che sembravano in via di sviluppo, grazie anche agli insegnamenti che si credevano consolidati dopo la pandemia, “con il rafforzamento delle Case di Comunità, di implementazione della salute di prossimità, in accordo con un’elaborazione teorica molto ricca negli ultimi 45 anni e alcuni esempi virtuosi presenti nel mondo, in Europa e anche sul nostro territorio nazionale”, si legge nel comunicato di Laboratorio Salute Popolare.

Secondo i professionisti sanitari intervistati da La Svolta, dietro la nascita dei Cau, «si delinea un progetto che mette in atto un meccanismo di delega che investe ogni livello delle responsabilità che un’amministrazione sanitaria regionale e cittadina dovrebbe assumersi, da quelle più burocratiche a quelle più strettamente professionali sanitarie; il tutto alle spalle e sulle spalle dei e delle cittadine con bisogni sanitari da gestire».

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