Diritti

Il prezzo dei diritti umani in Uganda e non solo

Gli Stati Uniti stanno pensando di non rinnovare il programma di supporto Agoa verso l’Uganda a causa delle sempre più aspre violazioni dei diritti umani perpetuate nel Paese
Credit: EPA/Yuri Gripas 
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12 novembre 2023 Aggiornato alle 06:30

È di questi giorni la notizia che l’amministrazione statunitense non ha intenzione di rinnovare il programma Agoa (African Growth and Opportunity Act) con l’Uganda e altri tre stati africani (Gabon, Niger e Repubblica Centrafricana), a causa del mancato rispetto dei diritti umani.

Il trattato di Agoa è un programma di supporto che gli Stati Uniti accordano a Paesi africani al fine di facilitare, tra le altre cose, le importazioni di beni, abbattendo le barriere doganali.

Il programma è stato spesso criticato da alcuni commentatori, perché utilizzato dalla superpotenza per influire su scelte di politica economica interna. Tra di esse, il tentativo non riuscito di Kenya e Tanzania di fermare il mercato dei vestiti usati, dettato dalla constatazione che spesso i Paesi importatori sono ridotti a discariche a cielo aperto per gli abiti che non vengono utilizzati e, in aggiunta, per il fatto di trovarsi nella quasi impossibilità di avere un’industria nazionale per gli indumenti, a causa del maggiore appeal che un vestito proveniente dall’estero, seppure usato, ha su gran parte della popolazione, soprattutto quando è griffato, rispetto ai non conosciuti e non pubblicizzati brand nazionali.

Rimane il fatto che nazioni quali lo stesso Kenya, che ne hanno saputo cogliere i vantaggi, ne godono in termini di prosperità di cui beneficiano soprattutto le aziende artigianali locali. Quel Kenya il cui precedente presidente Uhuru Muigai Kenyatta affermò, durante l’inaugurazione di un nuovo terminal portacontainer finanziato dalla Cina, di apprezzare il fatto che i cinesi aiuterebbero senza chiedere allo stato beneficiario di fare comandare i cinesi stessi a casa sua: in altre parole gli aiuti cinesi lascerebbero ogni stato comandare a casa propria.

Il presidente ugandese Museveni ha rilasciato dichiarazioni simili durante l’adozione della contestata normativa contro l’omosessualità, affermando che i Paesi occidentali vogliono imporre i loro stili di vita. Al riguardo, a prescindere da considerazioni varie sulla genuinità dell’aiuto cinese, visto che normalmente si tratta di operazioni in project finance che dovrebbero autofinanziarsi ma che poi vedono inevitabilmente scattare la garanzia della nazione aiutata perché i numeri non reggono la prova dei fatti, mi sono sempre chiesto cosa voglia dire “comandare a casa propria”.

La frase mi ricorda gli anni tristi, da me non vissuti personalmente ma di cui ero a conoscenza posto che vivevo in una piccola cittadina, in cui l’allora capo famiglia (l’uomo è stato capofamiglia in Italia sino alla riforma del diritto di famiglia del 1975) esercitava lo ius corrigendi sui figli, senza che alcun giudice potesse stabilire sino a quando, a meno che lo “zelo” nell’esercizio dei “mezzi di correzione”, non si tramutasse in eccesso o non causasse lesioni o addirittura la morte.

È utile ricordare che l’esclusione dell’uso della violenza, fisica o psichica, nei mezzi di correzione è conquista abbastanza recente, dei primi anni ’90 quando con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata in Italia nel 1991, ci fu un mutamento nelle nostre corti su cosa fosse lecito o no fare nelle mura domestiche per educare i figli.

Tornando all’Agoa Programme e all’Uganda, questo Paese sta vivendo una svolta sempre più repressiva non solo per quanto riguarda le libertà politiche, ma i diritti umani; basti pensare alla condanna dell’omosessualità e dei “rapporti sessuali impropri” con pene che giungono all’ergastolo se non quando alla pena di morte.

Un’Uganda pesantemente indebitata, che si trova in una morsa tra la restituzione dei debiti contratti, forse in modo imprudente nell’entusiasmo della scoperta di riserve petrolifere, e la necessità di investire in infrastrutture per esportare i propri prodotti. L’aiuto internazionale è quindi più che mai prezioso.

Ben venga allora l’approccio degli Stati Uniti (cui spesso fa eco l’Unione Europea) che condizionano gli aiuti al rispetto dei diritti umani perché tali diritti non sono affari interni di nessuno stato, essi appartengono alla specie umana e come tali devono essere tutelati da tutti, dentro e fuori dai patri confini.

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