Diritti

Iperandrogenismo, caso Semenya: come finirà?

La campionessa olimpica combatte da anni contro i limiti imposti dalla World Athletics per i livelli di testosterone prodotto naturalmente dal corpo. La Cedu le ha dato ragione, ma si attende una pronuncia definitiva
Caster Semenya
Caster Semenya Credit: Joel Marklund/Bildbyran via ZUMA Press
Tempo di lettura 5 min lettura
8 novembre 2023 Aggiornato alle 19:00

«Sono africana. Sono una donna. Sono una donna diversa»: queste le parole di Caster Semenya, 2 volte vincitrice della medaglia olimpica agli 800 metri. Dopo essere salita sul podio più alto, la campionessa sudafricana ha abbandonato le competizioni sportive per dedicarsi a una gara più importante: quella nelle aule dei tribunali contro le regole discriminatorie imposte alle atlete donne affette come lei da iperandrogenismo, cioè con alti livelli di testosterone prodotti naturalmente dal corpo.

Quando varcò il traguardo prima di tutte le altre velociste ai Mondiali di atletica leggera di Berlino nel 2009, il suo momento di gloria venne presto rovinato da un’ondata di critiche che mettevano in dubbio il suo sesso. La velocità impressionante e la massa muscolare ipersviluppata della diciottenne sudafricana erano state associate da molti alle sembianze di un uomo.

Si rese necessario l’intervento della federazione internazionale dell’atletica leggera World Athletics (prima del 2019 nota come Iaaf) per dirimere la questione: una serie di esami e test dimostrarono che Caster Semenya aveva un disturbo della differenziazione sessuale (Dsd). I suoi esami del sangue mostravano livelli di testosterone 3 volte maggiori rispetto a quelli di una donna media.

La World Athletics le impose un aut aut: se voleva continuare a gareggiare nelle competizioni internazionali, doveva sottoporsi a una riduzione farmacologica del livello di testosterone presente nel sangue. Semenya iniziò così a prendere dei contraccettivi ormonali che, secondo la sua testimonianza al Guardian, la facevano sentire «come uno zombie», con bruciori di stomaco, sudorazione e attacchi di panico.

Smise di assumere la pillola anticoncezionale nel 2015, quando la Corte arbitrale per lo sport (Cas) decise di sospendere per 2 anni i limiti al testosterone, e alle Olimpiadi di Rio 2016 riuscì a vincere la sua ultima medaglia olimpica agli 800 metri. Poi nel 2018 la World Athletics approvò nuove regole (le Eligibility regulations for female classification), che richiedevano alle atlete iperandrogine di ridurre i propri livelli di testosterone sotto i 5 nanomoli per litro per competere nelle gare femminili dai 400 metri a 1 miglio.

Semenya, con un gesto personale, estremamente politico, ha rifiutato i trattamenti, mettendo così in standby la sua carriera sportiva negli anni migliori; ha iniziato una battaglia legale che è arrivata fino ai banchi della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).

Proviamo a immaginare la sofferenza di un’atleta che per anni ha vinto tutto quel che poteva vincere, gareggiando non solo contro le sue avversarie, ma anche contro un intero sistema che non sapeva accettare e integrare la sua diversità. A chi la descrive come «una donna senza utero, una donna senza tube di Falloppio, una donna con testicoli interni» risponde: «Il disturbo non mi definisce come donna. I disturbi non ti rendono meno donna. Sei soltanto diversa». La sua incredibile storia l’ha raccontata lei stessa nel memoir The race to be myself (Merky Books), per ora pubblicato solo in lingua inglese.

Semenya è convinta che le limitazioni ormonali rappresentino un «problema razziale: non esistono persone bianche che siano influenzate da queste regole. Riguardano soltanto le donne nere, africane e asiatiche. Quindi, bisogna chiedersi: sono nel miglior interesse dello sport femminile o soltanto di certe donne?», ha spiegato a Reuters.

La World Athletics, all’opposto, nega qualunque discriminazione: «Il nostro unico interesse è proteggere la categoria femminile. Se non lo facciamo, le donne e le ragazze non sceglieranno più lo sport», ha ribadito un portavoce della federazione che continua a sostenere che l’iperandrogenismo rappresenti un vantaggio competitivo ingiusto nei confronti delle altre atlete (interessante che non ci sia nessun limite, invece, per quanto riguarda i livelli di testosterone degli atleti uomini).

A luglio di quest’anno, la Cedu ha dato ragione all’atleta sudafricana (4 giudici contro 3): dopo che i suoi ricorsi contro le regole della World Athletics erano stati negati prima dalla Cas nel 2019, poi dalla Corte suprema della Svizzera nel 2020, la Cedu ha riconosciuto che la Svizzera non ha protetto adeguatamente i diritti umani di Semenya pur a fronte di “allegazioni comprovate e credibili di discriminazione”. La pronuncia della Cedu non ha avuto alcun effetto diretto sulle regole applicabili alle atlete con Dsd, ma ha rinviato il caso davanti alla Corte suprema della Svizzera per una nuova sentenza.

L’esito del caso Semenya rimane incerto. Se la Corte suprema della Svizzera giudicherà i regolamenti in essere discriminatori, sarà necessario comunque un nuovo intervento della Corte arbitrale per lo sport affinché i limiti ormonali siano rimossi definitivamente. Su richiesta della Svizzera, il caso potrebbe anche essere portato nuovamente davanti Cedu.

La decisione finale avrà probabilmente ripercussioni anche su altri sport femminili con analoghe restrizioni ai livelli di testosterone, come il nuoto. Possibili implicazioni anche nel mondo del calcio, dove la Fifa sta ridiscutendo proprio in questi mesi i criteri di ammissione delle calciatrici e sta valutando l’introduzione di limiti di questo tipo.

Leggi anche
Disuguaglianze di genere
di Marco Biondi 3 min lettura
Divario economico
di Caterina Tarquini 3 min lettura