Economia

Fondazione Moressa: il lavoro straniero produce il 9% del Pil

Il contributo degli occupati immigrati (2,4 milioni) vale più di 154 miliardi l’anno; i settori in cui si registra il maggior impatto sul Prodotto Interno Lordo: agricoltura (15,7%), edilizia (14,5%)
Credit: Spencer Davis 
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25 ottobre 2023 Aggiornato alle 16:00

Nell’ultimo rapporto annuale della Fondazione Leone Moressa, presentato alla Camera dai ricercatori Chiara Tronchin ed Enrico di Pasquale insieme al segretario di +Europa Riccardo Magi, è stato mostrato il contributo che il lavoro degli immigrati dà all’economia italiana: 154,3 miliardi di euro all’anno, circa il 9% del Pil.

Ma non solo: per quanto riguarda gli stranieri naturalizzati italiani, l’impatto demografico è di 11 nati per 1.000 abitanti e 2 morti per 1.000 abitanti, contro i 6,3 nati su 1.000 e i 13 morti su 1.000 delle persone nate in Italia. Un contributo significativo, che ammortizza il calo demografico italiano.

Il rapporto rivela, inoltre, che nel 2022 sono stati 338.000 i permessi di soggiorno rilasciati dall’Italia, picco massimo dell’ultimo decennio. In ripresa, soprattutto, gli ingressi per lavoro, che rappresentano quasi un quinto del totale.

Gli occupati stranieri regolari in Italia sono 2,4 milioni e rappresentano il 10,3% del totale. Il tasso di occupazione tra gli immigrati si attesta al 60,6% (tra gli italiani è 60,1%), la disoccupazione al 12% (contro il 7,6%) e l’inattività al 31,2% (34,8%).

I settori di maggiore occupazione sono quelli dei servizi e della manifattura (nel 2022 davano occupazione rispettivamente a 1.044 milioni e 454 milioni di stranieri); quelli in cui si è registrato un maggior impatto sul Pil sono stati, invece, l’agricoltura (15,7%) e l’edilizia (14,5%).

Una forza lavoro importante che, secondo quanto previsto dal Governo, crescerà nei prossimi anni, visto che sono attesi altri 574.000 ingressi tra il 2023 e il 2026. Numeri che, racconta il report, non riusciranno comunque a rispondere al fabbisogno di manodopera del nostro Paese che rimane alto a causa di crisi demografica e del gap di competenze.

È recente la notizia dell’accordo tra Tunisia e Italia che consentirà a 4.000 tunisini di trovare lavoro nel Belpaese. Il presidente tunisino Saied ha commentato parlando di «un nuovo approccio che può essere sviluppato non solo con l’Italia, ma con una serie di altri Paesi» e ha aggiunto che «oltre a ciò, lavoreremo (con l’Italia) con l’obiettivo di eliminare le cause che hanno portato a questo fenomeno disumano nei Paesi da cui provengono le ondate di migranti… persone che vengono catturate e gestite dalle reti criminali».

Ma da dove provengono gli immigrati? Secondo il rapporto della Fondazione Moressa, in gran parte dall’est Europa (Romania, Albania, Ucraina); ma ad avere il reddito medio più alto sono i francesi e gli svizzeri, unici a restare sopra i 20.000 euro annui (rispettivamente 23.260 euro e 22.820 euro), mentre le persone più povere sono gli ucraini, con appena 10.400 euro in media.

Cresce anche il numero di contribuenti: 4,3 milioni (10,4% del totale) che nel 2022 hanno dichiarato redditi per 64 miliardi di euro e versato 9,6 miliardi di Irpef. Positivo, inoltre, il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 29,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 27,4 miliardi), con +1,8 miliardi di euro in attivo. Gli immigrati, prevalentemente in età lavorativa, hanno infatti un basso impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni.

Ma non mancano gli squilibri: il differenziale di reddito pro-capite tra italiani e immigrati si attesta intorno agli 8.000 euro annui di differenza. Inoltre, le donne hanno tassi di occupazione (47,5%), disoccupazione (15,2%) e inattività (43,8%) ben peggiori degli uomini, segno di una forte disparità di genere. E se da un lato il 75% degli immigrati occupa profili esecutivi (con la qualifica di operaio), la quota di stranieri laureati occupati in una professione low o medium skill è pari al 60,2% contro solo il 19,3% degli italiani.

Spostandoci sul lavoro irregolare, invece, il quadro cambia nettamente: il VI Rapporto agromafie e caporalato riporta circa 230.000 lavoratori impiegati irregolarmente nel lavoro primario. Questi impieghi si trovano soprattutto in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi di irregolarità che superano il 40%, ma anche nelle regioni del Centro-Nord (il tasso è compreso tra il 20 e il 30%).

Osservando il lavoro agricolo illegale, si nota che il peso dei lavoratori migranti raddoppia (in particolare quello dei cittadini comunitari); in oltre il 70% dei casi si tratta di lavoratori dipendenti e, tra questi, si osserva un maggior peso degli occupati che lavorano in regime di part-time. Ne consegue che, in corrispondenza dei lavoratori immigrati, i tassi di irregolarità assumono valori decisamente più elevati rispetto al tasso riscontrato per l’intero settore agricolo.

«Le criticità sono tante. Spaziano dal sotto-salario agli orari eccessivi, la non osservanza delle disposizioni su salute e sicurezza alle vergognose condizioni di vita negli accampamenti rurali informali. Non è un caso che siano spesso prospicienti ai grandi distretti agricoli. La sensazione è che siano consapevolmente tollerati per la loro funzione di serbatoi di persone da spremere come limoni», ha spiegato Jean-René Bilongo, capo Dipartimento Inclusione e Legalità della FLAI- CGIL (Federazione Lavoratori Agro Industria) e presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto (che cura il Rapporto Agromafie).

Gli immigrati, dunque, costituiscono un grosso contributo al fisco e alla produttività del Paese, aiutando inoltre nel contrasto al calo della popolazione. Tuttavia, le disuguaglianze sono evidenti, e spesso chi è straniero è sottopagato, sottovalutato, o sensibilmente esposto a fenomeni di caporalato. Implementare misure a sostegno dell’immigrazione, appare allora importante non solo per l’economia, ma per l’intero sistema-Paese.

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