Ambiente

I carri armati sono letali anche per l’ecosistema

Il conflitto in Ucraina sta provocando centinaia di vittime. E le armi di distruzione, oltre a infliggere pesanti danni a persone e infrastrutture, compromettono la qualità dell’aria, consumano litri di carburante e contaminano il suolo
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
1 marzo 2022 Aggiornato alle 20:18

È la Russia il Paese con la più grande riserva di carri armati al mondo. I “veicoli muniti di scafi corazzati, dotati di movimento autonomo e armati di bocche da fuoco, ovvero cannone e mitragliatrici”, così li definisce l’Enciclopedia Treccani, portano con sé un mix di guerra, carburante e emissioni.

Si stima che, ancor prima dell’invasione iniziata all’alba del 24 febbraio scorso, già 1200 carri armati fossero già disposti lungo il confine ucraino. I mezzi utilizzati dai sovietici, attualmente in servizio, sono ben descritti dalla testata giornalistica Russia Beyond o RBTH, conosciuta fino al 2017 come Russia Beyond the Headlines, e finanziata da Rossijskaja Gazeta, organo ufficiale del governo della Federazione russa, per passare poi sotto la direzione della compagnia ANO “Tv-Novosti”.

Sono quattro, in particolare, i carri armati utilizzati dall’esercito russo: il T-72BM “Ural”, in servizio dal 1973, il T-80, il T-90A “Vladimir”, e il T-14 “Armata”. Questi mezzi sono equipaggiati con motore diesel, ma possono utilizzare anche altri carburanti. Il consumo è molto elevato, lo stima il sito Targetmotori: si va dai 2 ai 4 litri per chilometro del T-72BM, agli 8 litri al chilometro del T-80, il più dannoso per l’ambiente.

È impossibile pensare di raggiungere le zero emissioni senza ridurre l’impatto del complesso dell’industria militare. Già nel 2009, il professore ed ecopacifista Barry Sanders, nel libro The Green Zone. The Environmental Costs of Militarism, sosteneva che le attività dell’esercito americano, da sole, contribuivano al 5% delle emissioni di gas serra totali. Solo recentemente l’esercito americano ha pubblicato la sua prima strategia climatica per rafforzare il servizio per un mondo afflitto dai conflitti causati dal riscaldamento globale. Lo ha raccontato il Washington Post: «Il piano mira a ridurre della metà le emissioni dell’esercito entro il 2030, elettrificare tutti i veicoli non da combattimento entro il 2035 e sviluppare veicoli elettrici da combattimento entro il 2050».

Perché solo ora? Gli strateghi americani sono sempre più allarmati per le implicazioni sulla sicurezza dei cambiamenti climatici: laddove gli ordini sociali e le popolazioni sono sconvolte dagli effetti del climate change, c’è il rischio di un aumento di conflitti armati. Ma gli obiettivi sono molto ambiziosi e il budget che li sosterrà è ancora teorico. Il Pentagono, per ora, rappresenta il 56% delle emissioni del governo federale e il 52% del suo consumo di elettricità.

«Oggi è internazionalmente riconosciuto il fatto che uno degli elementi costanti della guerra sia il suo effetto distruttivo sull’ambiente», spiega uno studio del 2019 sul danno ambientale in aree di conflitti o di forte instabilità politica condotto dalla ricercatrice Claudia Astarita del Centro militare di Studi Strategici: è l’Organismo che gestisce, nell’ambito e per conto del Ministero della Difesa, le indagini sui temi di carattere strategico.

Non si tratta solo di carburante ed emissioni: «Le esercitazioni condotte con camion, carri armati e veicoli pesanti hanno un impatto forte e di lungo periodo sul territorio, in termini sia di grado di compattezza del suolo sia di alterazione della flora. […] Gli addestramenti sui veicoli cingolati, invece, possono compromettere le funzionalità dei territori, soprattutto se adibiti ai pascoli». Continua lo studio: «Gli addestramenti con armi da fuoco favoriscono l’accumulo di sostanze inquinanti. Alla presenza di fosforo bianco, a esempio, sono stati collegati sia l’aumento dei tassi di mortalità e ridotta fertilità degli uccelli acquatici, sia i fenomeni di avvelenamento secondario dei rapaci».

Pochi giorni fa, il ministero della Difesa russo, citato dall’agenzia Tass, ha accusato l’esercito ucraino di fare un uso massiccio di munizioni caricate con il fosforo bianco alla periferia di Kyiv, ma non ci sono prove che confermino tali denunce. L’uso di queste munizioni è vietato dal terzo protocollo della Convenzione ONU sulle armi disumane del 1980. E nel 2017 Amnesty International aveva accusato la coalizione a guida statunitense in Siria di aver utilizzato il fosforo bianco nella zona di al-Raqqa, in Siria.

Come spiega Astarita, parlando della Guerra del Golfo, «anche la rimozione, a conflitto concluso, dell’elevato numero di camion, carri armati e altre attrezzature belliche ha provocato numerosi danni all’ambiente: molti veicoli danneggiati sono stati accatastati in aree appositamente predisposte, […] ma resta ancora tantissimo da fare per recuperare il pieno equilibrio naturale dell’area». Cosa che accadrà anche dopo la guerra in corso in Ucraina.

È di poche ore fa la notizia della distruzione di una colonna di carri armati russi per le strade di Kharkiv, o la foto satellitare dei 65 chilometri di strada occupati dai convogli uno dietro l’altro in direzione di Kyiv. Ormai è chiaro: il prezzo della guerra sarà anche ambientale.

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