Diritti

La povertà e la grandezza degli Stati: come misuriamo il successo di una nazione

Secondo il presidente egiziano al-Sisi lo sviluppo del Paese può valere anche la fame e la sete dei cittadini. Un’idea inaccettabile che suggerisce la necessità di un cambio di mentalità immediato
Credit: EPA/KHALED ELFIQI 
Tempo di lettura 3 min lettura
22 ottobre 2023 Aggiornato alle 06:30

In un discorso del 18 marzo 1968 all’Università del Kansas, Robert Kennedy richiamò l’attenzione sul fatto che il benessere di una nazione non può essere misurato dal prodotto interno lordo, perché tale parametro non misura le sofferenze. In particolare, un passaggio mi ha sempre colpito: «Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana».

Quel discorso mi è tornato alla mente in questi giorni, dopo che una frase pronunciata dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha fatto discutere in Africa e non solo: «se il prezzo del progresso e la prosperità di una nazione sono la fame e la sete, allora non mangeremo e non berremo».

In un Paese spinto a indebitarsi da un governo che intende consolidare la propria fama internazionale anche facendo leva su una storia millenaria, fa impressione pensare che poco meno del 30% della popolazione vive in povertà.

A parte i programmi faraonici, l’Egitto, come altri stati africani, fra i quali il Kenya, è un’altra delle vittime collaterali del conflitto Russo-Ucraino che, destabilizzando i mercati, ha fatto innalzare i costi delle materie prime e, anche a causa di una svalutazione elevata della moneta locale, fatto schizzare l’inflazione a livelli da record (37,4% ad agosto 2023).

L’attuale conflitto israeliano-palestinese non farà che aggravare ancora di più la situazione e gli effetti sugli strati più poveri della popolazione, ovvero quelli marginalizzati ma non marginali se si pensa al fatto che rappresentano 1 cittadino sul 3, sono facilmente immaginabili.

Eppure al-Sisi, ormai quasi alla fine del suo secondo mandato (le elezioni si terranno a dicembre del 2023), afferma che fame e sete non sono nulla rispetto alla grandezza della nazione e molto probabilmente sarà rieletto per la terza volta.

Senza volere relegarci in facili argomenti quali il fatto che la fame e la sete la soffrono gli altri, mentre la classe al potere non le conosce, fa davvero riflettere che ancora oggi la grandezza di un Paese sia valutata in base alla forza militare o alle grandi opere e non da un misuratore del benessere della popolazione, fatto di fattori come l‘accesso all’istruzione, alla sanità, alla giustizia e, ancor prima, a una vita decorosa.

Se è vero, infatti, che esistono altri indicatori del benessere rispetto a quello dell’indice di sviluppo umano (che in parte riflette anche un indice economico), quel che manca, nei Paesi africani ma anche in Italia e altrove, è un cambio radicale della mentalità generale, che porti al fatto che la grandezza di una nazioni non sia misurata su dati effimeri quali le opere faraoniche (siano esse canali, nuove città o ponti), la reputazione o l’entità delle forze armate, ma su criteri quali “nessuno sia lasciato indietro”, dove i diritti siano diritti e non mere petizioni di principio e i torturatori e gli assassini di un giovane ricercatore universitario o degli arrestati per sospetti crimini comuni siano consegnati alla giustizia senza se e senza ma.

Leggi anche
Esteri
di Giuseppe Dibitetto 2 min lettura
Italia
di Alice Dominese 3 min lettura