Culture

Selfie: da autorappresentazione a strumento di denuncia

Definito parola dell’anno nel 2013 dall’Oxford English Dictionary, da allora la sua fama non è mai sbiadita. La rappresentazione di sé però non è una novità ma affonda le radici nella storia
Tempo di lettura 3 min lettura
29 ottobre 2023 Aggiornato alle 11:00

Ha spopolato e continua a campeggiare intrepido sui social network ed è la rappresentazione per antonomasia che offriamo di noi stessi al mondo, il processo attraverso il quale diamo un volto alla nostra identità. Si tratta naturalmente del selfie, divenuto parola dell’anno 2013 secondo l’Oxford English Dictionary che la definisce “una fotografia scattata a se stessi, in genere con uno smartphone o una webcam, e caricata su un social media”.

A portare a quella nomina da parte della Oxford University Press è stata una ricerca condotta su circa 150 milioni di vocaboli dell’inglese corrente, dalla quale emerse che in quell’anno vi era stata un incremento da parte di questa parola del 17.000%.

Niente male per un termine neonato: il suo uso nasce infatti nel 2010 con il lancio dell’iPhone4, il primo cellulare ad avere una fotocamera anteriore.

Tra i selfie passati alla storia che hanno contribuito alla sua designazione a parola dell’anno, avvenuta a scapito di altre come bitcoin e twerk c’è anche il memorabile autoscatto che ha visto protagonista Papa Francesco con un gruppo scout di Piacenza.

Pratica diffusissima dunque, che vanta antenati illustri: dagli autoritratti rupestri degli antichi, scolpiti intorno al 2650 a.C. e ritrovati nella tomba di Ptahhotep, presso le piramidi di Saqqara, agli esempi emblematici di immagini di se stessi fatti da autori illustri come Rembrandt, Van Gogh o Frida Khalo per la pittura; o Robert Capa, Richard Avedon e Vivian Maier per la fotografia.

Esempi di auto rappresentazione trasformatisi nel tempo e divenuti, oggi, un rituale sociale basato sulla condivisione e il collegamento con una comunità virtuale di utenti.

Un meccanismo sfruttato anche da molti artisti per creare lavori partecipativi e da musei come il Selfie Factory di Londra o lo statunitense Museum of Ice Cream che offrono la possibilità di autoritrarsi in ambienti bizzarri: un vagone della metropolitana rosa confetto, per esempio, o una vasca da bagno colma di palline colorate.

Come spiega il libro Autoritratto. Storia e tecnologie dell’immagine di sé dall’antichità al selfie (Treccani edizioni, 2023) di Gabriella Giannachi, storica dell’arte e direttrice del Centre for Intermedia and Creative Technologies all’University of Exeter, l’autorappresentazione viene realizzata non solo come pratica fine a se stessa, ma anche, e soprattutto, in funzione della sua ricezione da parte degli spettatori e delle spettatrici.

Al centro di questo atto artistico c’è la relatability (relazionabilità), che funziona «come un ipotetico “essere visti” nel futuro» e come «un atto di compresenza» con l’osservatore.

Ma non solo, il selfie riguarda anche il corpo, la pelle e diventa espressione di denuncia, come quella messa in atto dall’artista contemporanea sud-africana Muholi, che si autoritrae con in testa e al collo una corda identica a quelle che venivano usate nelle impiccagioni delle persone non caucasiche nel suo Paese, mostrando – e denunciando – sofferenza e dolore.

Leggi anche
Pixy, il primo drone di Snap, la società di Snapchat, è tascabile e sta nel palmo di una mano (Credits: Pixy)
Tecnologia
di Andrea Giuli 3 min lettura
Piattaforme
di Lucia Antista 3 min lettura