Economia

Salario minimo: ecco perché il Cnel lo boccerà

Il report della Commissione per l’informazione dell’organo guidato da Brunetta non lascia spiragli per un parere positivo sull’introduzione di un salario minimo in Italia
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10 ottobre 2023 Aggiornato alle 16:00

Lo scorso fine settimana, due cortei hanno attraversato le strade di Roma per la prima manifestazione ‘La via maestra’ in opposizione al Governo Meloni, a poco più di un anno dal suo insediamento.

A piazza San Giovanni, i manifestanti si sono uniti in un’unica fiumana, che la Cgil insieme ad altre 100 associazioni, laiche e cattoliche, organizzatrici dell’evento stimano pari a 200.000 presenze, scese in piazza insieme ai vertici dei partiti di opposizione per portare avanti - fra le molte questioni - il tema del salario minimo.

Qualche giorno prima, la questione è stata affrontata ufficialmente dal Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Un organo di funzione consultiva composto da rappresentanti di sindacati e associazioni di imprese, oltre che da esperti nominati dal presidente della Repubblica, istituito direttamente dalla Costituzione e che - scampato il pericolo di abolizione proposta da Matteo Renzi nel 2016 - è stato ufficialmente incaricato dalla Premier Meloni di predisporre un parere sull’opportunità di introdurre in Italia un salario minimo entro 60 giorni.

Il 12 ottobre è dunque sarà la data ultima entro cui l’assemblea generale dovrà pronunciarsi, ma nel frattempo la sua Commissione per l’informazione, costituita da 15 consiglieri e dal Presidente Renato Brunetta (fino all’anno scorso a capo del Ministero per la Pubblica amministrazione) ha rilasciato un report di «inquadramento e analisi del problema» che non lascia molti dubbi.

Guardando agli «elementi di riflessione sul salario minimo in Italia» si evince una generale disapprovazione all’idea di estendere il trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) più rappresentativi a tutti i lavoratori, ponendola invece fra le «strumentalizzazioni politiche e eccessi di semplificazione di un problema altamente complesso».

Secondo la Commissione, il problema del lavoro povero e scarsamente tutelato esiste anche se non è da collegarsi ai salari insufficienti (come spesso emerge dal dibattito pubblico), proprio perché rappresenta il risultato di un processo che riguarda i «tempi di lavoro» cioè le ore e le settimane in cui si lavora in un anno, la «composizione familiare» e dunque quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo, e infine «l’azione redistributiva dello Stato».

Tutte questioni che vanno oltre l’importo del salario, e che portano la Commissione a preferire «un ordinato e armonico sviluppo del sistema della contrattazione collettiva» per creare contratti nazionali più robusti e capaci di garantire una giusta paga per ogni settore lavorativo, piuttosto che una retribuzione minima stabilita a monte dalla legge che, tuona il report, «potrebbe falsare le dinamiche contrattuali».

Amplificare l’autonomia dei sindacati quindi rappresenta la strada maestra per l’istruttoria tecnica del Cnel, sconfessata dal voto negativo proprio della Cgil e l’astensione della Uil. A favore della propria tesi, viene poi tirata in ballo la direttiva adottata dal Consiglio europeo nel giugno 2022, secondo cui entro due anni tutti gli Stati membri dovranno introdurre riforme e iniziative legislative che possano «istituire un quadro per fissare salari minimi adeguati ed equi» e quindi garantire ai lavoratori un reddito che permetta un livello di vita dignitoso e adatto ad affrontare il carovita.

A livello prettamente tecnico, quindi, gli Stati dovrebbero arrivare al 2024 con salario medio di 7,1 euro l’ora e un salario mediano (cioè il valore del salario sotto il quale sta la metà dei lavoratori e sopra l’altra metà) di 6,85 euro. Parametri europei a cui l’Italia, secondo dati Istat del 2019 citati direttamente nel Paper, sarebbe perfettamente allineata.

Stando ai suoi criteri, l’obiettivo della direttiva è anche quello di potenziare le iniziativa legislative che rafforzino le capacità contrattuali dei sindacati, in modo da aumentare la copertura della contrattazione collettiva qualora essa sia inferiore all’80%.

Un limite che, secondo il paper del Cnel, l’Italia rispetta e supera in pieno con un 211 contratti collettivi firmati da Cgil, Cisl e Uil «applicati al 96,5% dei lavoratori dipendenti italiani» pari a circa 13,8 milioni di persone, lasciando fuori dall’ambito di applicazione dei sindacati presenti nel Cnel solo 0,4% dei lavoratori (54.220 lavoratori dipendenti) che vengono coperti da contratti diversi.

Di conseguenza, sarebbe marginale la fascia di lavoratori a cui si applicano dei contratti pirata, cioè non sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative e più capaci di sfuggire al controllo nazionale e quindi lesivi delle tutele e dei diritti dei lavoratori firmatari.

Pur essendo solo un approfondimento tecnico, il parere del Cnel sembra sminuire ogni argomentazione portata avanti dalle principali forze di opposizione negli ultimi mesi a favore dell’introduzione di un salario minimo per legge, liquidando di fatto la proposta firmata a luglio da Pd, M5S, Azione, Europa Verde, Sinistra Italiana e Più Europa sui 9 euro l’ora come base per i contratti collettivi, che aveva ricevuto sostegno dalle parti sociali e perfino una parziale apertura di Confindustria.

Rimane dunque da vedere se la probabile bocciatura attesa dalle stanze di Villa Lubin potrà influenzare la discussione della proposta di legge prevista per il 17 ottobre, quando approderà ufficialmente nell’Aula della Camera.

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