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Eugenia Romanelli: «Ecco come educare alla sostenibilità sociale»

È nato l’S-Assessment, il primo questionario scientifico che misura 5 dei 17 obiettivi Esg dell’Agenda 2030 dell’Onu. La Svolta ne ha parlato con la Ceo di ReWorld, la startup innovativa femminile che l’ha realizzato
Eugenia Romanelli
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 10 min lettura
11 ottobre 2023 Aggiornato alle 12:15

Non esisteva nulla di simile prima. Nessuno aveva mai realizzato, in Italia, uno strumento in grado di misurare scientificamente la sostenibilità sociale delle imprese. Ci ha pensato ReWorld, startup innovativa a vocazione sociale che presenterà l’S-Assessment il 13 ottobre, a Roma, nell’ambito del ReWriters fest., il primo festival italiano dedicato alla sostenibilità sociale, giunto alla sua 3° edizione.

Fino al 15 ottobre numerosi e numerose ReWriters, riscrittori e riscrittrici dell’immaginario contemporaneo, useranno l’intrattenimento per educare, divulgare e informare. Tra questi, la cantautrice Marina Rei, la cantante e attrice Tosca, lo street artist Lucamaleonte, l’attore e comico Andrea Roncato.

Ma che cosa si intende con sostenibilità sociale? Il Global Compact delle Nazioni Unite spiega che “direttamente o indirettamente, le aziende influenzano ciò che accade ai dipendenti, ai lavoratori della catena del valore, ai clienti e alle comunità locali, ed è importante gestire gli impatti in modo proattivo”. Le aziende devono “evitare di danneggiare i diritti umani” e affrontare “qualsiasi impatto negativo sui diritti umani che possa essere collegato alle loro attività”.

E qui, allora, che entra in gioco l’S-Assessment? La Svolta ne ha parlato con Eugenia Romanelli, scrittrice, giornalista, operatrice culturale e fondatrice di ReWorld.

Da dove nasce l’esigenza di creare questo S-Assessment e di cosa si tratta?

L’S-Assessment è il primo assessment - o questionario scientifico - italiano sulla sostenibilità sociale. Si chiama così perché si riferisce all’acronimo Esg (Environment, Social, Governance), i 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030, e fa il focus sulla “S”. Noi puntiamo a diventare leader in Italia della sostenibilità sociale, che in questo momento non è presidiata: non ci sono parametri ufficiali dall’Europa per misurare l’impatto sociale delle organizzazioni, delle istituzioni, delle politiche, ecc… Arriveranno, ci auguriamo, tra il 2024 e il 2025, ma, attualmente, se un’azienda vuole sapere come impatta all’interno del gruppo sociale di riferimento, non ha strumenti per capirlo.

Il nostro è il primo strumento del genere, ed è scientifico: abbiamo finanziato un progetto di ricerca alla Diag, il Dipartimento di Ingegneria informatica, ambientale e gestionale della Sapienza Università di Roma, per trasformare in algoritmo i 16 punti del manifesto di ReWriters.it che sono ispirati al framework dell’Agenda 2030 in termini di sostenibilità sociale. Questo strumento è stato poi ottimizzato dalla società benefit Eikon Strategic Consulting, che il 3 agosto ha acquistato il 40% della società ReWorld, di cui io sono Ceo, che è leader in Italia da 30 anni della misurazione dei media.

Perché non esisteva ancora uno strumento simile?

Quando si parla di sostenibilità, spesso si pensa a quella ambientale. Da numerose ricerche di Eikon emerge che, soprattutto tra i più giovani, il concetto di sostenibilità è stato ampiamente assimilato, ma viene associato all’ambiente. Tra le fasce d’età medio-alte, invece, si comprende appieno cosa sia la sostenibilità economica, ma il concetto di sostenibilità sociale è un argomento che resta vago e poco comprensibile. Non solo alle persone, ma anche anche alle organizzazioni che hanno l’obbligo di misurarsi con questa “S” da qui al 2030.

È possibile invertire questa tendenza?

Noi lavoriamo su due fronti: con ReWriters.it, con il manifesto, con il Festival e con tutti i vari progetti che sono legati al marchio culturale ReWriters.it lavoriamo sull’immaginario, quindi sul creare cultura attorno a questo manifesto di 16 punti che riguarda, appunto, la sostenibilità sociale. Quindi, per esempio, la salute mentale dei giovani, la giustizia intergenerazionale, il contrasto alla violenza contro le donne, al bullismo, il sostegno ai diritti delle minoranze e della comunità Lgbtq+, body shaming, ecc. Con ReWorld, invece, che è una startup innovativa femminile a vocazione sociale, ci occupiamo di misurare l’impatto delle organizzazioni sulla sostenibilità sociale attraverso questo S-Assessment.

Nella pratica, come funziona questo strumento?

Dà un indice, quindi un numero, ma non è strutturato in modo da misurare una sufficienza o un’insufficienza, bensì da valorizzare tutte quelle attività che le organizzazioni hanno fatto, stanno facendo o hanno intenzione di fare che impattano sulla S di social, quindi sull’ambiente sociale. Come dicevo, nelle organizzazioni – e culturalmente - c’è ancora molta confusione su che cosa sia la sostenibilità sociale.

L’indice è stato creato a partire da parametri oggettivi, come per esempio la disparità salariale e la presenza delle donne nei luoghi decisionali. Altri punteggi vengono dati alle iniziative che le organizzazioni hanno intrapreso e, magari anche senza saperlo, hanno avuto un impatto sulla sostenibilità sociale sia all’interno, quindi lato HR, sia all’esterno, lato comunicazione. Questo S-Assessment è uno strumento per creare cultura generale e aziendale intorno a questo concetto, ma serve anche a valorizzare e ad aiutare a raccontare le azioni che le organizzazioni hanno fatto o stanno facendo attorno al tema. Chi compila l’assessment non sta conquistando una certificazione: noi lavoriamo sul senso di identità di un’azienda che vuole sapere come si sta comportando in merito a una serie di questioni, temi e problematiche sociali, e si pone certe domande.

In che modo si viene classificati?

Esistono 4 fasce: il punteggio più basso si chiama Pioneer. Si tratta di una terminologia proattiva, quindi meritevole, perché crediamo che il solo fatto di porsi certe domande (per esempio: c’è un dress code in azienda? Si usa il maschile sovra-esteso?), che non hanno mai riguardato la vita aziendale o la sua comunicazione verso l’esterno, rende quell’azienda leader del cambiamento. Ci aspettiamo che la maggior parte delle aziende italiane saranno tutte Pioneer, proprio perché non c’è cultura su questo tema. Crediamo che saranno molto poche le aziende che riusciranno a essere Climber (la 2° fascia), Game changer (3°) o addirittura Transformer, la migliore delle 4. Ciò che conta è che questa strumento mette le aziende in condizioni di vantare e valorizzare le proprie azioni.

L’S-Assessment è il primo indice italiano che misura scientificamente la sostenibilità sociale delle imprese. Ci sono degli esempi all’estero a cui vi siete ispirati?

Ci sono tantissimi indici verticali, anche in Italia, peraltro, sulla parità di genere, oppure sulle questioni economiche o ambientali, ma non ci sono modelli che tengono conto dei 5 dei 17 obiettivi della S. Perché non sono stati aggregati così ed è per questo che non ci sono indici né parametri dall’Europa. L’ambiente ha un vantaggio trentennale, mentre di sostenibilità sociale si inizia a parlare solo adesso. Finora abbiamo incontrato e usato i termini “diversity” e “inclusion” per la parità di genere, ma si tratta solo di una parte della S. Il punto di vista di cosa sia e come funzioni una società pacifica, equa e felice è stato indagato soltanto da artisti, filosofi, ma non da indici scientifici. Per questo l’Università ne ha voluto fare un progetto di ricerca, prendendo la letteratura scientifica internazionale e analizzandola in base a ognuno dei punti del manifesto. E ne ha tratto un indice.

TIM è la prima azienda italiana ad aver aderito all’S-Assessment. Anche altre hanno deciso di farlo?

TIM, che è sponsor dell’intero Festival (che sarà trasmesso sulla piattaforma 4 Weeks 4 Inclusion) ha ampiamente abbracciato questo nostro modello. Altre due aziende hanno finito in questi giorni di compilare il questionario: si tratta di Lundbeck Italia, un’azienda farmaceutica molto impegnata sul contrasto allo stigma sulla salute mentale dei più giovani, e Havas Life Italy, una multinazionale che offre competenze multidisciplinari nel campo della comunicazione healthcare. Entrambe sono sponsor dell’evento.

Se, da una parte, il marchio culturale ReWriters ha l’obiettivo di parlare alle singole persone o alle associazioni per fare cultura riguardo alla sostenibilità sociale – cioè considerare il fattore human determinante per una società più felice, più giusta, più equa, più pacifica- ReWorld, invece, con il suo assessment, si occupa delle organizzazioni che noi riteniamo oggi essere (o avere un potenziale di) game changer molto più della politica. E sono anche più aggiornate: hanno l’obbligo di arrivare al 2030 con i goal sugli Esg, e soprattutto hanno tanto personale, quindi possono mettere in pratica più facilmente e più agilmente questi temi rispetto alla politica. Per noi sono degli interlocutori importanti, così come le singole persone.

Qual è il vostro obiettivo?

Cambiare il mindset del modo di attraversare questa esistenza sul nostro Pianeta nel corso di una generazione, per cercare di intercettare una corsa all’estinzione che a quanto pare riguarderà, se non la prossima, la generazione successiva. Tutto si muove da un’urgenza etica. Noi interpretiamo la sostenibilità sociale come il punto di vista human sui grandi problemi dell’oggi. Quello maggiore è che abbiamo confuso il rapporto con il nostro Pianeta: da custodi ne siamo diventati predatori, quindi abbiamo in qualche modo pervertito la relazione con la Terra. Dobbiamo trasformare una cultura ego-logica, basata sul modello androcentrico, che poi è quello del patriarcato, a una cultura ecologica, che ci faccia identificare nel modo corretto: noi siamo uno degli elementi della vita e questa, per sostenersi, ha bisogno di ogni elemento. Su questo, secondo noi, bisogna fare cultura, cominciando da un Assessment e poi passando all’aspetto personale, di cittadinanza attiva e di stakeholder.

Che vantaggi porta essere un’azienda socialmente sostenibile?

Intanto, prima ci si adegua ai parametri dell’Agenda 2030, più si avrà un vantaggio rispetto alle aziende che aspetteranno il 2029 o il 2030 per mettersi in pari. Queste avranno più difficoltà ad accedere ai finanziamenti, ai mercati, e questo non porterà loro alcun profitto. Inoltre, adeguarsi all’Esg è una bellissima sfida per un imprenditore, un’imprenditrice, o una qualunque impresa: puoi partire dallo svantaggio in cui rischi di trovarti, dal punto di vista del tuo business, ma essere obbligato a cambiare modelli ti costringe anche a una forte creatività per riposizionarti.

Secondo te c’è il rischio che le aziende sfruttino il concetto di sostenibilità sociale per migliorare la propria reputazione, mettendo in atto un “social washing” come accaduto già con la sostenibilità ambientale e il relativo “greenwashing”?

Sì, può succedere, ma noi lavoriamo sull’immaginario, sul role model: a noi importa creare un modello talmente desiderabile che se tu non lo persegui sei socialmente indietro. Nel momento in tu, azienda, dici che rispetti le donne, gli animali, la comunità Lgbtq+, e poi non è così, di fatto stai facendo leva per vendere il tuo prodotto su un sistema di pensiero che sai essere quello vincente. È un modo per mettere in minoranza delle pratiche socialmente insostenibili in maniera fisiologica, ma non imperativa: noi non facciamo audit dentro le aziende, ma lavoriamo su un desiderio che sia autentico. La nostra idea è che per creare una cultura socialmente sostenibile, autentica e duratura occorre creare dei modelli di identificazione, lavorare sulla partecipazione, sul senso di appartenenza, sulla loro autenticità. Nel momento in cui insegni a pensare in maniera diversa, la pratica viene dopo. Se tu azienda fai finta per un anno, due anni o dieci anni, all’undicesimo non funzioni più, perché dipendenti e consumatori ti abbandonano.

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