Diritti

“Non ho l’età”: perché per le donne non è mai il momento giusto

Troppo giovani, troppo prese dai figli, “ormai” troppo vecchie: lo studio pubblicato su Harvard Business Review svela come i pregiudizi legati a youngism e ageism vengono utilizzati per giustificare le discriminazioni
Credit: cottonbro studio
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
29 novembre 2023 Aggiornato alle 15:00

Non importa quanti anni abbiano. Le donne non hanno mai l’età giusta per ricoprire ruoli di leadership sul posto di lavoro. È giovane? È inesperta. È madre? Troppo impegnata con i figli. Si avvicina alla “mezza età”? Ha superato il suo apice.

A dirlo è una nuova ricerca pubblicata su Harvard Business Review dal titolo Women in Leadership Face Ageism at Every Age, che ha intervistato quasi 1.000 donne leader in 4 settori negli Usa: istruzione superiore, organizzazioni no-profit religiose, diritto e assistenza sanitaria.

«Nessuna età era quella giusta per essere una donna leader - ha spiegato a Voa Amy Diehl, ricercatrice sull’uguaglianza di genere e una delle coautrici del rapporto - Passano dall’essere percepite come troppo giovani a troppo vecchie in un istante».

Con il termine ageismo ci si riferisce generalmente a pregiudizi, stereotipi e comportamenti discriminatori rivolti ai dipendenti più anziani, spinti dall’errata percezione secondo cui le prestazioni peggiorano e la capacità diminuisce con l’invecchiamento delle persone. Al contrario, lo youngism si riferisce all’ageismo nei confronti degli adulti più giovani ed è alimentato dalla fusione tra età e maturità e dalla percezione errata che il possesso di ruolo sia necessario per acquisire competenza.

La ricerca si concentra sull’ageism di genere e sul modo in cui i pregiudizi legati all’età vengono sfruttati per discriminare le donne nel mondo del lavoro.

“Man mano che le donne invecchiano, spesso non sono viste come preziose o rilevanti come lo sono le controparti maschili. Le donne anziane nella nostra ricerca hanno affermato di essere ritenute indegne di avanzamento. «Mentre gli uomini diventano pozzi di saggezza man mano che invecchiano, le donne anziane sono viste come antiquate, arpie, stridenti” - ha osservato un medico - Le nostre voci non vengono ascoltate»”.

Ma le cose non vanno meglio per donne più giovani o quelle che sembravano giovani. Soprannomi come missy, kiddo, young lady, carezze paternaliste sulla testa, richieste di andare a chiamare “un uomo più anziano”. Molte donne, anche in ruoli apicali, hanno riferito di essere state scambiate per studentesse, stagiste, tirocinanti, personale di supporto, segretarie, assistenti legali e stenografe del tribunale. Questi pregiudizi erano particolarmente diffusi per le donne non bianche.

Molte donne più giovani, continua lo studio, “hanno anche sperimentato un deficit di credibilità, che si verifica quando le dichiarazioni e le competenze delle donne non vengono credute”. Prevedibilmente, a essere in primo piano è il loro aspetto, più che quello che hanno da dire.

E chi non è “troppo giovane” né “troppo vecchia”? È “troppo mamma”, troppo impegnata in attività che non sono quella lavorativa. “Le donne di età compresa tra i 40 e i 60 anni nel nostro studio non se la sono cavata meglio delle loro controparti più giovani o più anziane. Una dirigente universitaria ha descritto come alcuni comitati di ricerca abbiano scelto di non assumere donne sulla quarantina a causa di ‘troppe responsabilità familiari e imminente menopausa’. Altri comitati di ricerca hanno rifiutato di assumere donne sulla cinquantina perché hanno ‘problemi legati alla menopausa e potrebbero essere difficili da gestire’. E ancora altri comitati hanno affermato che ‘le donne tra i 50 e i 60 anni potrebbero non essere ‘invecchiate bene’ e non ‘sembrare vitali’. Eppure i lavori sono stati affidati a uomini della stessa età”.

Mentre gli uomini tra i 40 e i 50 anni sono generalmente considerati dotati di una vasta esperienza che li pone al top della loro carriera, le donne nella stessa fase sono solitamente viste in modo molto diverso, ha spiegato a Voa Amber Stephenson, coautrice del rapporto. e professoressa di management alla Clarkson University di New York.

Come cambiare le cose, quindi? Spostando l’attenzione sulle competenze e non sulle persone. Il primo passo per risolvere un problema, si sa, è ammetterne l’esistenza. Quindi, dicono le ricercatrici che hanno lavorato allo studio, la prima cosa da fare è riconoscere i bias legati all’età quando si parla di leadership femminile, senza dimenticare il ruolo che il lookismo riveste in questi pregiudizi.

La pressione incessante per apparire giovani e attraenti (come se da questo derivasse il valore professionale) è qualcosa che colpisce più le donne che gli uomini: per questo, il lookismo dovrebbe essere incluso nelle policy Dei (Diversity and Inclusion) e dovrebbe essere prestata particolare attenzione al fatto che non venga utilizzato come metrica nascosta per assunzioni, promozioni o valutazione delle prestazioni.

Non solo: è importante anche sviluppare team intergenerazionali e di genere misto, per incoraggiare l’apprendimento reciproco e imparare a collaborare sulle soluzioni.

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