Diritti

Quegli ucraini di Crimea che credono in Putin

A marzo 2014 il referendum indetto nella penisola dal presidente russo - senza il consenso dell’Ucraina - segnò l’inizio della crisi che ci aiuta a capire l’invasione di oggi. Qui gli abitanti sono più schierati che mai con lo “zar”
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25 febbraio 2022 Aggiornato alle 18:20

«Mi dispiace molto, ma senza un’operazione del genere sarebbe stato probabilmente impossibile…» 3 puntini di sospensione interrompono momentaneamente la conversazione con Aleksey, russo e ucraino di Crimea. Anche se la tastiera continua a scrivere: «se hai seguito gli ultimi eventi, [sai che] il presidente dell’Ucraina Zelensky ha rifiutato di attuare gli accordi di Minsk, ecco perché i garanti non hanno potuto fare nulla e Putin ha preso una decisione del genere. [Gli ucraini] hanno aggravato la situazione e hanno continuato a bombardare Donetsk e Lugansk, la gente stava morendo e [Putin] non voleva continuare tutto questo all’infinito. Dal momento che Germania, Francia e Inghilterra si sono rifiutate di fare qualsiasi cosa affinché l’Ucraina iniziasse ad adempiere ai suoi obblighi ai sensi dell’accordo, [Putin] ha deciso di iniziare un’operazione del genere».

Sono forti le parole di Aleksey, nato in Crimea durante l’Unione Sovietica – con la dissoluzione dell’URSS nel 1991, la penisola divenne parte dell’Ucraina indipendente –, uno di quell’oltre 90% degli abitanti di Crimea che il 16 marzo 2014 scelse di essere riannesso alla Federazione Russa, chiudendo le porte all’Ucraina e cambiando gli equilibri geopolitici mondiali.

Ancora oggi la proclamazione d’indipendenza e il referendum del 2014 sono considerati illegali dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – per l’Ucraina la Crimea è un territorio temporaneamente occupato. Anche se Aleksey non la pensa così. «È difficile dire come andrà questa guerra», conclude, «mi sembra tutto molto, molto difficile».

Aleksey non è però il solo a pensare che Putin non abbia invaso le Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, ma che le abbia liberate. E che quei patti di Minsk II firmati nel 2015 non siano serviti a nulla. Dopo il fallimento del precedente Minsk I sottoscritto nel 2014, il secondo accordo era stato elaborato per mettere fine al sanguinoso conflitto esploso nella regione dell’Ucraina orientale del Donbass.

A firmarlo, i rappresentanti di Russia, Ucraina, i leader separatisti delle autoproclamate repubbliche e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) - gli accordi furono in seguito approvati da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il protocollo prevedeva il cessate il fuoco, il ritiro delle armi pesanti dal fronte monitorato dall’Osce, la ripresa del dialogo per le elezioni nelle due auto-proclamate repubbliche popolari, il ripristino dei legami commerciali e sociali e del controllo del confine con la Russia da parte di Kyiv, il ritiro delle forze straniere e dei mercenari, una riforma costituzionale per conferire un’autonomia maggiore al Donbass rispetto al governo centrale. Come per i finali più brutti, niente di tutto ciò è stato rispettato.

Secondo un sondaggio della CNN condotto prima dell’invasione russa, 1 russo su 2 pensava fosse giusto usare le armi per prevenire l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, mentre solo per un quarto (25%) sarebbe stato sbagliato (il 25% degli intervistati non era sicuro).

Non è un caso che Aleksey, come tanti altri, sia stato sedotto dalle promesse di Putin: nel 2014, per convincere gli abitanti della Crimea ad andare a votare al referendum per tornare a far parte della Russia, la propaganda di Putin sui muri delle città recitava “Stop al fascismo. Tutti [insieme] per il referendum!”. Dal fascismo al nazismo, comunque una nazione da ri-conquistare.

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