Ambiente

Fashion industry: la sostenibilità pone nuove sfide legali

Oggi, per le imprese della moda e del lusso non basta più tutelare solo i propri interessi: l’obiettivo è trovare il giusto compromesso che generi profitti e rispetti il Pianeta e i diritti dei lavoratori
Credit: Fondazione fashion research Italy
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6 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Per lungo tempo, moda e diritto hanno avuto come punti di contatto la tutela delle privative industriali e i contratti di distribuzione; non che altri settori del diritto non fossero interessati, ma non apparivano tra i principali in questo tipo di attività (semmai ancillari, essendo comuni alle altre industrie).

Con il crescere dell’attenzione nei confronti dei temi ambientali e del rispetto dei diritti umani, anche il mondo della moda sente la necessità di conformarsi a tutti quei fattori che sono le basi dello sviluppo sostenibile, con un misto di ragioni che vanno da genuine intenzioni a ragioni promozionali e al desiderio di evitare danni reputazionali.

Non manca poi un certo opportunismo economico, considerato che, almeno nell’Unione europea, il rispetto dei principi Esg (Environmental, Social e Governance), per i quali l’Unione sta definendo la corretta tassonomia per l’applicazione, diverrà uno dei criteri principali per essere valutati positivamente dagli investitori, catalizzando finanziamenti che probabilmente saranno anche incentivati sotto il profilo dei trattamenti prudenziali, imposti alle società di gestione del risparmio e alle banche dagli enti regolatori.

Il tema dello sviluppo sostenibile si fa comunque centrale, non solo per il forte impatto che l’industria ha sull’ambiente e sugli aspetti di sfruttamento dei lavoratori, spesso operanti in Paesi in via sviluppo in assenza di sufficienti tutele in tema di sicurezza sul lavoro; ma anche per l’idea generale che spesso la moda e, soprattutto, il lusso coincidano con il superfluo e il non necessario, rendendo le ferite all’ambiente e la violazione dei diritti dei lavoratori ancor più esecrabili.

Da qui, numerose iniziative, che vanno da varie forme di autoregolamentazione, con rigidi protocolli autonomamente adottati, a un iter normativo che spinge in favore dell’applicazione di principi di sostenibilità in tutti i settori produttivi. L’adeguamento alla sostenibilità è in ogni caso un cammino lungo che parte da lontano.

Nel settore del lusso e della moda meritano di essere menzionate le iniziative, partendo dall’autoregolamentazione, poi condivisa in sede Onu, con la Certificazione Kimberley introdotta nel 2000, volta a prevenire il commercio illegale dei diamanti che, spesso, sostiene il terrorismo in vari Paesi africani (bloody diamonds).

E, ancor prima, la Convenzione sul Commercio delle Specie Minacciate di Estinzione (C.I.T.E.S.), adottata nel 1973 e divenuta efficace nel 1975 per la protezione delle specie a rischio, che stabilisce limiti assoluti o relativi al commercio di fauna e flora a rischio di estinzione.

A livello europeo, varie direttive che tendono a rendere virtuose le produzioni, a partire dalla comunicazione, sono in fase di adozione a livello nazionale. Meritano di essere menzionate la direttiva volta a contrastare il greenwashing attraverso l’adozione di sistemi di valutazione oggettiva dell’impatto ambientale, la direttiva sulla supply chain due diligence che impone alle grandi aziende di controllare i processi produttivi anche dei sub fornitori ovunque essi siano situati affinché si accerti la mancata violazione di norme ambientali e dei diritti umani.

C’è poi la direttiva sul corporate sustainability reporting (Csrd) che estende il novero delle imprese che devono fornire informazioni in bilancio relativamente a dati non finanziari di sostenibilità, quali a esempio l’impatto sull’ambiente, la composizione di genere dei propri dipendenti e le differenze retributive, cercando, quindi, di consentire, attraverso la trasparenza e l’introduzione di standard di classificazione, una corretta valutazione di quanto le imprese siano sostenibili e un confronto tra le medesime.

E così, come per i settori cosiddetti “regolamentati” perché soggetti ad autorità di vigilanza (quali banche e assicurazioni), l’aspetto legale della compliance (ovvero, il conformarsi dell’impresa ai dettami normativi) sta divenendo sempre più centrale anche nell’industria della moda e del lusso.

Il logico corollario di tutto questo è il cambiamento del ruolo del legale che assiste le società dall’interno quale dispendente, o dall’esterno quale consulente: non più volto solo a tutelare gli interessi dell’impresa, ma anche impegnato nella difficile sfida per trovare un compromesso tra la ricerca del profitto, che muove l’impresa, e il rispetto dell’ambiente e dei diritti umani e sociali.

Un compromesso non facile ma possibile e augurabile, perché lo sviluppo, se non è sostenibile, comporta conseguenze disastrose, a partire dall’ambiente, e devastanti sulle persone e sulla società.

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