Diritti

Cimitero dei feti: multa per Roma Capitale e Ama

Sanzionate (per 176.000 e 239.000 euro) dal Garante della privacy “per aver diffuso i dati delle donne che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, indicandoli su targhette apposte sulle sepolture dei feti”
Credit: ALF
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
23 giugno 2023 Aggiornato alle 19:00

È il 28 settembre 2020 quando un lungo post su Facebook accende i riflettori su una pratica che prosegue indisturbata da più di 20 anni all’insaputa di centinaia, migliaia di donne. Marta Loi, che ha interrotto una gravidanza qualche mese prima in un centro specializzato di Roma, scopre l’esistenza di un cimitero in cui vengono sepolti i feti di chi, come lei, ha eseguito un aborto. E trova una croce con il suo nome, una data e un codice. Il prato del Lotto 108 del cimitero Flaminio, noto anche come cimitero di Prima Porta, è disseminato di quelle croci di metallo, ci sono centinaia di nomi come il suo. Sono 300.

Dalla testimonianza di Loi, che alla domanda del personale sanitario: “Vuole procedere lei con esequie e sepoltura?” aveva risposto che no, non se ne sarebbe occupata, ne emergono molte altre, molto simili, e viene fuori che dietro questa prassi si nascondono le associazioni religiose che si inseriscono in un vuoto lasciato dalla legge italiana. Secondo il “Regolamento di polizia mortuaria del 1990” i “prodotti del concepimento” di età inferiore alle 20 settimane possono essere sepolti solo su richiesta dei “genitori”, mentre la sepoltura è sempre prevista per i “nati morti”, oltre le 28 settimane. Ai “prodotti abortivi”, tra le 20 e 28 settimane, invece, spetta la sepoltura in un campo comune con permessi rilasciati dalla struttura sanitaria, anche senza richiesta dei genitori.

A quasi 3 anni da quella vicenda, il Garante privacy ha sanzionato per 176.000 euro Roma Capitale e per 239.000 euro Ama, società in-house cui è affidata la gestione dei servizi cimiteriali, “per aver diffuso i dati delle donne che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, indicandoli su targhette apposte sulle sepolture dei feti presso il Cimitero Flaminio. Ammonimento per la Asl Roma 1”, spiega in una nota il Garante per la Protezione dei Dati Personali, l’autorità amministrativa indipendente italiana che tutela i diritti e le libertà fondamentali e il rispetto della dignità nel trattamento dei dati personali.

Il Garante sottolinea 2 aspetti, in particolare: per prima cosa i dati relativi all’interruzione di gravidanza rientrano tra quelli riguardanti la salute, di cui è vietata la diffusione; inoltre, se questo non bastasse, la legge 194 del 1978 prevede un rigoroso regime di riservatezza. “Dall’istruttoria del Garante è emerso che la diffusione illecita è stata originata da una comunicazione di dati effettuata in violazione del principio di minimizzazione”, ovvero: la Asl Roma 1 “aveva trasmesso ai servizi cimiteriali la documentazione con i dati identificativi delle donne. Le informazioni erano state poi riportate nei registri cimiteriali (determinando potenzialmente la possibilità di estrarre l’elenco di chi aveva effettuato un‘interruzione di gravidanza in tutte le strutture ospedaliere del territorio) e sulle croci, nonostante la normativa specifica preveda che, per l’apposizione della targhetta sul cippo, le informazioni da indicare siano quelle del defunto; quindi tali informazioni non possono in alcun modo essere assimilate a quelle che riguardano le donne che hanno avuto una interruzione di gravidanza”.

Oltre alle sanzioni, il Garante ha ordinato all’Azienda sanitaria di non riportare più le generalità “in chiaro” sulle autorizzazioni al trasporto e alla sepoltura e sui certificati medico legali, indicando alla Asl “alcune misure tecniche e/o organizzative (come l’oscuramento dei dati identificativi delle donne, la pseudonimizzazione o la cifratura dei dati) che garantirebbero la possibilità di individuare con certezza il prodotto del concepimento e il luogo della sua sepoltura, senza consentire - in modo diretto - di risalire all’identità della donna”. Entro 60 giorni la Als dovrà comunicare scelta e adozione delle misure al Garante.

Giulia Crivellini e Francesco Mingiardi, avvocata e tesoriera di Radicali Italiani e avvocato della causa per la campagna Libera di Abortire, volta a garantire concretamente a ogni persona il libero accesso all’aborto, spiegano di aver depositato, nel 2021, un’azione popolare contro l’azienda ospedaliera San Giovanni, Ama e Asl, in difesa di un’altra donna che aveva scoperto una croce a suo nome, Francesca Tolino.

Ci sono voluti «2 anni di denunce, udienze, inchieste giornalistiche nazionali e internazionali che, con la campagna Libera di Abortire, abbiamo promosso per sostenere le centinaia di donne che dopo aver abortito a Roma hanno scoperto il loro nome su una croce cattolica al Cimitero Flaminio di Prima Porta». In questi anni, spiegano, «abbiamo posto le armi del diritto al servizio dei diritti, anche e soprattutto di quelli riproduttivi, per ricordare che la nostra libertà di scelta non può ritrovarsi crocifissa e negata in una qualsiasi fase dell’interruzione volontaria di gravidanza. E continueremo a farlo».

Nella giornata di ieri il gruppo ha depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare sull’aborto sicuro e informato, che punta a superare la legge 194 del 1978. Un testo realizzato “analizzando e prendendo in considerazione l’attuale panorama normativo e socioculturale internazionale, confrontando la legge 194 con le leggi più progressiste nel mondo”, che ha reso evidente un “necessario intervento sugli ambiti dell’aborto volontario, terapeutico, spontaneo, di telemedicina, sepoltura e smaltimento del materiale biologico degli aborti, e sui consultori”.

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