Diritti

Cimiteri dei feti: facciamo il punto

In Italia sono tantissimi e legali, ma spesso le associazioni anti abortiste approfittano di regolamenti poco chiari per procedere a sepolture senza consenso. E farne luoghi di propaganda anti IVG
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
7 settembre 2022 Aggiornato alle 13:00

Fino a qualche anno fa di ciò che succedeva ai feti abortiti si parlava e sapeva pochissimo, poi il caso di una donna romana che aveva accidentalmente scoperto cosa fosse accaduto al suo, seppellito senza consenso in un’area specifica del cimitero Flaminio, ha acceso i riflettori su una pratica che presenta moltissimi lati oscuri.

Era il 2020 e forse per la prima volta il termine “cimitero dei feti giunse sulle pagine delle cronache nazionali e internazionali, per poi sparire di nuovo e tornare in auge in questi giorni, a seguito delle dichiarazioni del senatore di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo, che ha annunciato l’intenzione, in caso di vittoria della coalizione del centrodestra alle elezioni, di ripescare una proposta di legge già presentata lo scorso novembre per rendere sempre obbligatoria la sepoltura dei feti, anche senza il consenso dei genitori e a prescindere dalla data dell’interruzione di gravidanza.

Come funziona al momento?

Nel nostro Paese la materia è attualmente governata dall’articolo 7 del regolamento di polizia mortuaria del 1990 che differenzia l’iter a seconda delle settimane di gestazioni alle quali avviene l’aborto.

Dopo le 28, dispone che i feti siano registrati all’anagrafe come nati morti e sepolti come qualsiasi persona, mentre dalla 20° alla 28°, quando non si parla più di feti ma di prodotti abortivi, stabilisce che le persone coinvolte nel concepimento e nella gestazione, entro 24 ore, possano esprimere la volontà di farsene carico o delegare la struttura ospedaliera, che opera insieme agli enti comunali. In entrambe le casistiche la sepoltura è obbligatoria, la scelta è solo in merito a chi debba occuparsene.

Diversa e più spinosa la questione prima delle 20 settimane. Se l’aborto, volontario o spontaneo che sia, avviene entro quei termini, le persone coinvolte hanno sempre tempo fino a 24 ore per presentare una domanda di sepoltura all’azienda sanitaria locale, ma se non lo fanno l’ospedale può scegliere in autonomia come disporre del prodotto del concepimento. Molto spesso viene smaltito tra i rifiuti speciali ma la struttura può anche decidere di consegnarlo a associazioni del terzo settore e delegare a loro la pratica.

Ed è a questo punto che sorgono i problemi, visto che molto spesso si tratta di associazioni pro-life contrarie all’aborto, che approfittano di un regolamento poco chiaro per portare avanti le loro campagne anti IVG sulla pelle di donne inconsapevoli e procedere a sepolture prive di consenso.

La realtà più attiva di tutte è Difendere la vita con Maria, associazione con base a Novara ma che agisce sull’intero territorio nazionale stipulando accordi con le asl e gli ospedali in modo assolutamente legale ma non del tutto trasparente e sicuramente non rispettoso della liberà di scelta delle donne di auto determinarsi. Dei suoi vertici si era già parlato in occasione del Congresso mondiale delle famiglie svoltosi a Verona nel 2019, dove si erano particolarmente distinti per aver regalato portachiavi e altri gadget in plastica a forma di feto ai partecipanti.

Cosa sono e dove sono i cimiteri dei feti?

La sepoltura dei feti in Italia non è dunque solo consentita dalla legge ma, come abbiamo visto, in alcuni casi obbligatoria. Questo rende quindi necessaria l’esistenza di aree deputate a tale pratica, che infatti sono presenti in numerosissimi cimiteri, nonostante raramente segnalate e poco identificabili. Secondo le ultime stime sarebbero una cinquantina da nord a sud ma con ogni probabilità si tratta di un numero sotto stimato.

Il problema quindi non è la loro esistenza quanto il fatto che si tratti di luoghi dei quali si parla pochissimo e che risultano pressoché sconosciuti a tutti, compreso chi abortisce.

A prescindere dalle circostanze e motivazioni di un aborto, se una donna vuole dare sepoltura al proprio feto ha il sacrosanto diritto di farlo ed è giusto che le siano dati gli strumenti e il supporto necessari. Non si tratta però del desiderio di tutte, soprattutto tra coloro che interrompono la gravidanza volontariamente e quasi mai trovano sui moduli di consenso informato pre IVG traccia di ciò che avviene una volta terminato l’aborto.

Questa volontaria omertà porta spesso alla sepolture all’insaputa delle dirette interessate, che a volte non scoprono mai che da qualche parte esista testimonianza evidente della loro decisione, intima e privata.

L’ingerenza dei movimenti pro-life nei reparti ginecologici pubblici

L’ingresso delle associazioni anti abortiste nelle strutture ospedaliere pubbliche è sempre più frequente e massiccio e ciò, benché non sia vietato, contribuisce in varie forme a ostacolare il diritto di scelta delle donne e la piena attuazione della legge 194 che, come sappiamo, in Italia è piuttosto simile a una corsa a ostacoli.

Anche se in questo caso il loro operato giunge quando l’aborto è già avvenuto, seppellire un feto senza coinvolgere la donna, per di più seguendo un rito religioso scelto in modo arbitrario e privo di consenso, rappresenta infatti una grandissima violenza e un tentativo di punizione morale per il gesto compiuto. Della serie: ti sei liberata di tuo figlio e non vuoi nemmeno seppellirlo, quindi ci pensiamo noi.

Spesso i cimiteri dei feti si presentano come un luogo ricco di croci bianche, frasi religiose affisse ovunque, inni alla vita e piccole lapidi sulle quali campeggia la data dell’aborto e immagini di angeli. Uno scenario già di per sé piuttosto inquietante ma che, complice il fatto che si tratti di aree non particolarmente frequentate e controllate, a volte prende derive ancora più drammatiche e invasive.

Ogni complesso cimiteriale di fatto viaggia indisturbato per conto proprio e il caso del Flaminio di Roma lo dimostra, con una donna che ha scoperto mesi dopo l’aborto che il proprio feto giacesse sotto una lapide in bella vista riportante nero su bianco non solo la data dell’IVG, ma anche il suo nome e cognome. Lì, alla mercé di qualunque avventore, in barba a ogni benché minima decenza e, soprattutto, alla privacy.

A seguito di quella prima denuncia avvenuta via social, molte altre donne scoprirono di trovarsi nella stessa situazione e, supportate dall’associazione Differenza Donna, inviarono un esposto da cui partì un’inchiesta per violazione della legge sull’aborto e sulla diffusione dei dati personali. Alcuni mesi fa, però, la pratica è stata definita semplicemente “prassi erronea” e archiviata perché “non esiste dolo”.

Una frase cortissima, lapidaria, che non lascia spazio a dubbi ma, se mai ce ne fosse bisogno, rende ancora più evidente come ciò che avviene al corpo delle donne non sia considerato importante e che in fondo se si decide di abortire non si possa certo pretendere di essere immune dal giudizio.

Il paradosso è che visto che gli ospedali possono incaricare chiunque dello smaltimento dei prodotti del concepimento, associazioni come Difendere la vita con Maria agiscono quasi sempre nei perimetri della legge che, beneficiando di maglie molto larghe e dell’autonomia regionale in termini sanitari, può essere facilmente plasmabile, come già succede in molti territori.

In Lombardia, Marche e Veneto l’obbligo di sepoltura a prescindere dalle settimane di gestazione è già in vigore e, se dovesse tramutarsi in realtà la proposta di Fratelli d’Italia, potrebbe estendersi su tutto il territorio nazionale, minando un altro duro colpo alla libertà di scelta delle donne.

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