Diritti

Nascere e crescere a 200 metri da B. (parte 3)

Sui social media chi è contro, chi è pro. Non si può non schierarsi su Berlusconi? E invece per me è una cosa che ha a che fare con la provincia nella quale sono nata. Non ne vado fiera, ma è casa
Cristina Sivieri Tagliabue
Cristina Sivieri Tagliabue direttrice responsabile
Tempo di lettura 7 min lettura
24 giugno 2023 Aggiornato alle 07:00

Se vuoi, leggi la prima e la seconda parte

Ho una memoria fotografica. Ricordo i volti e non i nomi delle persone.

Berlusconi durante uno dei due eventi di Publitalia degli anni Novanta ai quali ho assistito ha spiegato ai presenti, per lo più investitori pubblicitari, che quello che mi capita è normale: le persone ricordano al 90% il tuo aspetto quando ti guardano, in televisione e non, e quello che dici conta ben poco. Insomma l’importante è avere l’outift giusto: chi ti conosce e incrocia sui media alla fine ti dice “ti ho visto lì, stavi bene, come eri truccata bene, che bella camicia…”.

Raramente le persone normali, quelle che ti circondano nella vita reale, ricordano di cosa hai parlato. E questo è tutto dire perché invece tu sei lì a cercare di comunicare cose intelligenti che riguardano la tua professione. Quelle, però, riguardano una sfera di persone più stretta.

Le persone normali, innanzitutto, giudicano l’aspetto, e in Brianza noi siamo molto molto bravi a farlo. Anni dopo questo racconto tanto triste quanto illuminante ho letto una ricerca che spiegava un teorema “attiguo” allo stesso concetto: quando parliamo con una persona, questa recepisce - quando va bene - soltanto il 10% di quello che stiamo comunicando. Quindi occorre pensare bene a cosa dire alle persone importanti per noi, quando le incontriamo.

Per questo, forse, non ho praticamente detto nulla quando ho passato la mia mezz’ora di celebrità in compagnia di Silvio Berlusconi, ad Arcore. Non avevo nulla da chiedere ma come tutti i giornalisti, immagino, avevo la curiosità di chi accoglie molto di più di quel 10% che diventerà un titolo.

Anche se poi non ho mai scritto di quell’incontro (dopo di me, ricordo un Alan Friedman nella saletta d’attesa, credo per il documentario che stava girando su B in quel periodo, My Way) perché è stato un incontro così spiazzante e così gentile da non lasciare spazio a mezzo commento d’inadeguatezza.

Aveva studiato chi ero. Lui sapeva chi io fossi forse meglio di quanto ai tempi sapessi io stessa di me.

Fa impressione la capacità di alcuni rarissimi individui di intuire il tuo “precipitato” e di restituirti non quello, ma la parte migliore di quello che potresti essere.

Mi spiace, deluderò tutti i detrattori e le detrattrici di Silvio Berlusconi. A me, in quell’incontro, ha mostrato la parte migliore che sarei potuta diventare. La giornalista che si confronta con un grande leader politico alla pari. E tutti sappiamo che io non ero affatto al suo pari, sia perché non sono Lucia Annunziata né Oriana Fallaci, sia perché ai tempi ero una giovane donna con i jeans che un sabato qualunque attraversa la strada di casa di papà e arriva a casa di “papi”.

Poche centinaia di metri e incontri qualcuno che ti mostra la proprietà ma al tempo stesso ti mette di fronte allo specchio di quello che sarai.

Di cosa abbiamo parlato? Di politica, ma non importa. Io ricordo com’era vestito lui, con un pantalone e un girocollo blu, e lui avrà certamente notato me coi capelli senza “piega”, una camicia dalle maniche rimboccate dal caldo causa estate incipiente e i jeans pensati proprio per non dare il senso della formalità o l’impressione di un’eleganza ricercata per l’occasione.

Eravamo in una stanza con due divani, un po’ anni Ottanta come gli anni in cui ho capito che l’abito fa il monaco. Arredamento dello stesso periodo, non decadente ma manchevole della cura di una donna che ha il gusto per l’interior design.

Si può spendere tanto e tuttavia riuscire a non creare un luogo accogliente. Ci sono tessuti vistosi e costosi che però rendono l’atmosfera un po’ roboante, eccessiva. Ecco forse quella stanza era un po’ così. Un po’ “ancien régime”, un po’ polvere. Un po’ casa dei genitori, dai. Oppure come quando indossi una cosa che tutti dicono che è bellissima perché costa, e a te non sta bene ma la indossi comunque.

Per esempio il Moncler negli anni Ottanta, che alla più bella della classe stava benissimo, e tu sembravi l’omino Michelin. O come i jeans con lo stemma di Emporio Armani sulla tasca. La forma ti faceva sembrare di qualche chilo in più invece che in meno ma insomma erano il must have e nessuno osava battere ciglio, soprattutto noi della Brianza, che adottavamo i dettami di Milano e delle tivù senza fiatare.

Nemmeno io, anche senza aver visto Drive In, dove Enzo Braschi inaugurava l’epoca dei paninari perché da piccola dovevo leggere due libri a settimana con relativi riassunti ma non potevo vedere la tivù. La stessa sorte toccata ai tre piccoli figli di Lario/Berlusconi, allora sì proprietario della tivù commerciale.

Ci sono delle incongruenze nelle storie di ciascuno, e delle piccole grandi incoerenze in tutte le famiglie (non solo quelle della Brianza).

Ci sono anche delle priorità, e dei compromessi che stando insieme si devono accettare, e credo che questo di non guardare la tivù del papà sia stata la cosa più incredibile che abbia sentito dei miei “vicini di casa”. Potrebbe essere anche falsa. Ma insomma, com’è possibile, lui fa la tv, ma i figli non la guardano neppure?

Non ho cercato su Google le fonti, perché quello che scrivo qui viene tutto dai ricordi che si sono affastellati nella mia infanzia. Momenti ma anche luoghi, perché la geografia emotiva di noi tutti è fatta da chi ci circonda, e così come chi passa da Porta Venezia a Milano non può non aver mostrato ai propri figli i fenicotteri rosa di Villa Invernizzi, anche noi avevamo una geografia di case e di famiglie intorno che ci ha fatto crescere con l’idea che per farcela nella vita era necessaria la “fabbrichetta”, il progetto, la “costruzione”.

Soltanto la provincia di Monza, con le sue imprese, ha fatturato 12 miliardi di euro lo scorso anno. Le 800 aziende più grandi fatturano da un minimo di 10 milioni di euro fino a 4,7 miliardi di euro ciascuna. La ricchezza è tangibile così come le fuoriserie parcheggiate fuori dagli stabilimenti di famiglia, dove alle volte, i proprietari, hanno costruito la villa accanto al cemento della manifattura.

Prima di arrivare a Villasanta c’è lo stabilimento dei Rovagnati, che si raggiunge da viale delle Industrie venendo dallo stadio di Monza ed è impossibile non vedere. La Simmenthal dei Sada è in via Borgazzi sempre a Monza, una strada molto centrale della città dove il signor Alfonso Sada s’inventò il manzo in scatola che si apriva con una chiavetta. Il nome della carne viene dalla Thal, una razza bovina della valle svizzera di Simmen.

La Omef di Brugherio dei Fumagalli, poi diventata Candy e poi un po’ dei cinesi. Oggi gli investimenti della famiglia sono tantissimi, anche nel mondo del turismo, lo scorso anno hanno deciso di farci il Merlot, in Brianza, e chiamarlo Pissirito. Ad Albiate c’era la filatura Caprotti, il cui erede, il signor Bernardo, fondò l’Esselunga. Da noi una certezza, andavamo solo lì perché la verdura dell’Esselunga è la migliore di tutte.

Ricordo mio zio che mi raccontava la storia di Mario Colombo di Mandello che - come fosse nella Silicon Valley - aveva iniziato dal suo garage producendo ghette in feltro di lana e tute da lavoro prima che da sci. Dalle iniziali del suo nome nasce Colmar.

E poi le telerie Frette del francese Edmond Frette che si trasferì a Monza a fine 800 costruendo uno stabilimento di tessuti proprio accanto al Lambro. E chi lo sa quanto ha inquinato le acque del nostro fiume sempre pieno di schiuma quella fabbrica ormai in disuso.

Perché il Lambro, il fiume che attraversa il nostro Parco, il più grande parco recintato d’Europa, quando ero piccola io, era sempre sporco e non si capiva perché.

Mio padre raccontava che ci faceva il bagno da piccolo e, infatti, in centro a Villasanta l’unico monumento che svetta è quello dedicato alla lavandaia. Il vero mestiere femminile protagonista del nostro Novecento di provincia ma anche il vero ruolo che intuivi dovesse avere la donna secondo Silvio Berlusconi.

Lo vedevi dalla tivù e dalla sua carriera professionale, dalla sua storia personale, lo vedevi da tutto tranne che da quell’incontro in cui - credo - abbia desiderato così tanto piacere da apparire altro da se stesso.

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