Culture

“Slay”, il documentario che scava sotto le pelli (animali) della moda

La pellicola denuncia il backstage della moda, ogni anno responsabile della morte di miliardi di esemplari. La regista è Rebecca Cappelli, che ha presentato il documentario al Fashion Film Festival Milano
Credit: David Koma Fall 2020 show, London © SLAY
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
19 giugno 2023 Aggiornato alle 21:00

“Mentre guardavi questo documentario almeno 500.000 animali sono stati uccisi per la moda, nemmeno uno per necessità”. Lo schermo diventa nero, scorrono i titoli di coda. Le luci del Cinema Anteo di Milano illuminano di nuovo la sala, le poltrone, il pubblico. Uno scroscio di applausi riempie il silenzio lasciato da Slay, il documentario prodotto e diretto dalla regista investigativa francese Rebecca Cappelli.

Il suo lavoro, proiettato per la prima volta nelle sale italiane a febbraio del 2023, mira a creare un cambiamento culturale e a mettere le persone in condizione di diventare difensori degli animali, del Pianeta e delle comunità vulnerabili. Perché è stata in primis lei, Rebecca Cappelli, a vivere sulla propria pelle questo cambiamento: da consumatrice di vestiti prodotti con materiali di origine animale, ad attivista per i diritti degli animali. «Mi sono resa conto che ero un’amante degli animali che però li indossava», spiega nella pellicola. Un’evoluzione a cui si assiste man mano che il documentario avanza e porta alla luce il lato oscuro dell’industria della moda.

Nel 2020, secondo il Parlamento europeo, “il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche e dell’uso del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media 9 metri cubi di acqua, 400 metri quadrati di terreno e 391 chilogrammi di materie prime per fornire abiti e scarpe per ogni cittadino dell’Ue”. Il 1° giugno 2023 i membri del Parlamento Europeo hanno presentato proposte per fermare la produzione e il consumo eccessivi di tessili. Il rapporto del Parlamento chiede che i tessili siano prodotti nel rispetto dei diritti umani, sociali e del lavoro, nonché dell’ambiente e del benessere degli animali.

«È davvero importante capire che la crisi climatica è una crisi etica, se non rispettiamo la vita. E la vita può essere un fiume, una foresta, o gli animali. Se non lo facciamo, non abbiamo la possibilità di affrontare davvero la crisi climatica e di trovare soluzioni reali», ha spiegato la regista alla proiezione del suo lungometraggio (disponibile gratuitamente sulla piattaforma WaterBear, che riunisce le pellicole dedicate all’ambiente), in occasione del Fashion Film Festival Milano, l’evento internazionale di moda e cultura fondato e diretto da Constanza Etro, alla sua 9° edizione, in collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana e il patrocinio del Comune di Milano.

Cappelli ha parlato di fronte a una platea composta principalmente da studenti di moda del master in Fashion Communication dell’Accademia Costume & Moda, le generazioni che avranno la possibilità di fondare un nuovo sistema del fashion.

Slay denuncia il continuo utilizzo di pelli e pellicce animali nell’industria della moda. Il termine ha un doppio significato: letteralmente vuol dire uccidere (una persona o un animale) in maniera violenta, mentre nel gergo è usato per descrivere una persona che in italiano definiremmo “in tiro”. Attraversando 5 continenti, tra concerie, mattatoi, negozi, e intervistando attivisti, ex operai, esperti di sostenibilità, stilisti, designer e giornalisti, il viaggio della regista svela una storia straziante di greenwashing, violazione dei diritti umani, etichettatura errata, crudeltà sugli animali e insabbiamenti da parte di alcuni dei principali marchi di moda del mondo.

«Tutti i brand principali danno informazioni sulla sostenibilità e sui loro operai. Ma quando si tratta degli animali che impiegano, non c’è quasi nessuna informazione a riguardo», spiega Cappelli nel documentario. Nella moda, il materiale di origine animale più comune è la pelle, che in gran parte viene prodotta in Russia, Italia, Brasile, Cina e India: è proprio da qui che parte l’indagine della regista. Ma Slay si concentra anche sulla pelliccia, “il tipo di pelle più controverso”: nonostante numerosi marchi l’abbiano abbandonata negli ultimi anni, dopo numerose campagne di pressione, molti continuano a utilizzarla.

“Secondo uno studio finanziato dalla stessa industria delle pellicce, solo il 25% di una pelliccia è biodegradabile”, viene spiegato nel documentario, e comparata a quella sintetica, “quella vera produce 7,5 volte più emissioni” e “per evitare che il pellame marcisca, le pellicce vengono trattate con sostanze come la formaldeide e metalli pesanti”, senza contare l’uso spropositato di acqua: secondo le stime del Parlamento europeo l’industria tessile e dell’abbigliamento avrebbe utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi di acqua nel 2015, mentre nel 2017 il fabbisogno dell’intera economia dell’Ue ammontava a 266 miliardi di metri cubi. Alcuni dati indicano che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo.

Per realizzare Slay e indagare questi e altri strascichi dell’industria del fashion ci sono voluti 3 anni e mezzo dal primo giorno di riprese al giorno dell’uscita, compresi 2 anni di ricerche investigative. «E questa è solo la mia parte», spiega Cappelli, anche fondatrice dell’azienda di produzione Let Us Be Heroes, che ha l’obiettivo di creare film che accelerino la consapevolezza delle persone riguardo i temi della giustizia sociale per l’impatto ambientale ed etico.

«Alcune delle persone che ho intervistato lavorano su questi temi da decenni e la maggior parte di loro da diversi anni. Si tratta di un patrimonio di conoscenze che non è stato ancora raccolto, ma che è già disponibile - continua Cappelli - Quello che è emerso è che abbiamo un rapporto problematico e molto pericoloso con gli animali. Ma non si tratta di additare determinati marchi: le persone si evolvono, i brand si evolvono. Alcuni sono desiderosi di cambiare, altri non vogliono farlo, non gli interessa, perché preferiscono guardare ai profitti».

Le alternative già esistono: SQIM, per esempio, è un’azienda di (bio)tecnologia che sviluppa processi e prodotti innovativi, scoprendo il potenziale del micelio fungino come agente chiave per la biofabbricazione, per applicazioni in diversi settori industriali. Orange Fiber, invece, è una fibra derivante dagli scarti dell’arancia. E gli esempi sono tantissimi.

Emma Hakansson, co-autrice di Slay, attivista e fondatrice dell’organizzazione non-profit Collective Fashion Justice, che si impegna a svelare le ingiustizie interconnesse nelle filiere della moda e creare un sistema totalmente etico, ha iniziato a lavorare in quest’industria come modella: «Non avevo alcuna considerazione etica, né degli animali, né del Pianeta, né delle persone - racconta all’Anteo - Quando ho iniziato a pensare ai vestiti che mettevo sul mio corpo, non solo per vestirmi ma anche per fare soldi, mi sono resa conto che stavo indossando pellicce, pelli di animali. Stavo contribuendo a un sistema che in realtà non era in linea con i valori che sostenevo come individuo, e questo significava che potevo provare a ignorarlo, oppure potevo lasciarlo». È importante considerare, secondo Hakansson, «ciò che indossiamo, ma anche il nostro potere di cittadini che possono impegnarsi politicamente».

Si può cambiare tutto il sistema da un giorno all’altro? «No - spiega Cappelli - ma io, personalmente, non credo nei piccoli passi. Credo che se vogliamo davvero capire a che punto siamo ora, dobbiamo fare passi davvero da giganti. […] È molto facile sentirsi sopraffatti, chiudersi e non fare nulla. E questo è l’errore che dobbiamo evitare insieme. Vorrei che tutti i presenti in sala si sentissero non solo sopraffatti, ma anche autorizzati a diventare protettori della vita».

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