Culture

Viaggio nel Museo Laboratorio della Mente

Allestito nell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, racconta attraverso un percorso espositivo multimediale cos’erano nell’800-900 i manicomi. E perché alcune persone venivano rinchiuse
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31 maggio 2023 Aggiornato alle 09:00

Da diverso tempo il disagio mentale è tornato centrale nel dibattito pubblico (soprattutto a causa della pandemia, che ha avuto importanti ripercussioni sulla salute mentale). Era il 13 maggio 1978 quando la Legge Basaglia impose la chiusura di tutti i manicomi: “uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale”, spiegava nel 2003 l’Organizzazione mondiale della sanità.

Ma quanto ne sappiamo del disagio psichico? C’è un luogo a Roma che lo racconta e ci ricorda che “guarigione” significa spesso convivere con alcuni tipi di problemi. È il Museo Laboratorio della Mente, allestito negli spazi dell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà che con i suoi 120 ettari di verde, 41 edifici e 24 padiglioni di degenza fu uno dei più grandi d’Europa, chiuso nel 1999 e gestito dalla Asl 1 della Capitale.

Oggi parte della sua storia è raccolta nel padiglione 6 (provvisoriamente chiuso per ristrutturazione ma visitabile online) il cui percorso espositivo è stato curato da Studio Azzurro, gruppo di ricerca artistica milanese, che attraverso diversi tipi di linguaggi sensoriali e non mostra la vita all’interno del manicomio.

Un percorso immersivo e multimediale che coinvolge le persone che lo visitano, stimolandone la partecipazione attiva. Perché il Museo della Mente non vuole raccontare una storia, vuole farla rivivere.

Tra i diversi elementi del percorso c’è “Entrare fuori uscire dentro”: un muro che attraversa l’intero allestimento e che divide gli ambienti esterni da quelli interni come metafore di inclusione ed esclusione dalla vita sociale e pubblica.

Nell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà i pazienti venivano internati per categorie: il padiglione 18 accoglieva i criminali, il 14 gli agitati, il 22 i cronici, il 12 tutte le persone pericolose per tentativi di fuga e suicidio. Il più grande era il 22, chiamato il Bisonte, dove confluivano gli epilettici, i dementi senili e gli schizofrenici.

C’erano pazienti di tutte le età, anche bambini e bambine: alla fine dell’800, ne furono internati circa 300 sotto i 15 anni. Nelle cartelle cliniche rimaste, risulta che il motivo che giustificava l’internamento delle bambine era la deficienza etica e l’amoralità. In alcuni casi, poi, si faceva più esplicitamente riferimento all’impossibilità, per le famiglie povere, di tenerle a casa, specie se di carattere irrequieto.

Il manicomio divenne così una delle varie forme attraverso cui si esprimevano i rapporti di forza tra i generi all’interno delle reti sociali degli individui, in primis in quelle familiari. Lo dimostra anche l’internamento delle 300 donne tacciate di isteria: indemoniate, ninfomani, agitate. Così furono definite tutte quelle donne non conformi al ruolo imposto dalla società. Disadattate, quindi pazze, senza pudore e per questo destinate alla segregazione tra le mura del manicomio.

Visitare questo luogo vuol dire attraversare, passo dopo passo, le importanti innovazioni di carattere psichiatrico nella lotta contro lo stigma e i pregiudizi del disagio mentale che accomuna tutti. E questa fase storica ce lo dimostra.

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