Ambiente

Piano climatico: all’Emilia-Romagna serve concretezza e velocità

Anni di rimandi e fondi mai utilizzati. Solo due anni fa la regione chiedeva al Governo un Pnacc con direttive precise contro il dissesto idrogeologico, tutt’oggi fermo. Quanto dovremo aspettare prima di agire?
Credit: ANSA/EMANUELE VALERI
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22 maggio 2023 Aggiornato alle 16:00

La velocità con cui in Italia ci prepariamo ad adattarci alla crisi del clima appare inversamente proporzionale alla velocità con cui il surriscaldamento ci colpisce.

Dagli Accordi Parigi in poi, e si parla del 2015, i Paesi hanno preso l’impegno di prepararsi - anche attraverso piani - agli impatti del nuovo clima: da noi però tutto viene fatto a rilento.

Nello Stivale sono nate prima delle “strategie”, di fatto indicazioni sulla carta, e poi l’avvio del percorso per arrivare a un Pnacc condiviso, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici che è però ancora fermo al 2018 e in attesa di Vas, valutazione ambientale strategica.

Il tutto, mentre da inizio anno, dopo le dimissioni di Alessandro Modiano, in Italia non abbiamo più nemmeno un inviato speciale per il clima.

Eppure, due anni fa, quando ancora a preoccupare era soprattutto la pandemia, dall’Emilia-Romagna come si legge in questo documento hanno inviato le osservazioni regionali relative al futuro Pnacc, con tanto di preoccupazioni e punti debol indicati.

Per esempio, scrivevano dalla regione, ci vuole “l’assunzione dell’obiettivo di dotare tutte le aree di maggior vulnerabilità di sistemi di previsione di allerta precoce entro una scadenza temporale definita”, che magari sarebbero stati ulteriormente utili se operativi prima dell’alluvione. Ma soprattutto “l’individuazione di priorità di intervento, sulla base del Quadro Conoscitivo, nelle aree di maggior vulnerabilità che richiedono la maggior parte degli interventi di protezione civile, nonché la assunzione dell’obiettivo di riduzione al 2030 degli interventi di protezione civile causati da fenomeni riconducibili ai cambiamenti climatici (dal 2013 a oggi sono stati aperti 70 stati di emergenza a seguito di eventi alluvionali, per un danno totale rilevato di circa 11,2 miliardi di euro”) e ancora “promozione di modifiche normative che rendano cogente, entro un tempo definito, il divieto della edificazione in aree a rischio idrogeologico e la delocalizzazione di edifici in aree a rischio”.

Oppure “l’individuazione, anche con l’aiuto delle Enti locali, delle azioni prioritarie tra le 21 azioni più rilevanti elencate nel Piano, che intercettano i diversi settori, riconducibili alle 4 tematiche principali: dissesto geologico, idrologico e idraulico; gestione delle zone costiere, biodiversità, insediamenti urbani, ma non solo, che si possono attuare su tutto il territorio nazionale con bassi costi unitari, scarsi investimenti progettuali e il massimo dell’efficacia come, a esempio, per migliorare l’adattamento ai fenomeni di sovraccarico del sistema di raccolta delle acque piovane, possono essere: la trasformazione dei fossi di scolo delle acque di prima pioggia di tutte le strade extraurbane, che con il loro ampliamento e con l’inserimento di sistemi atti a trattenere l’acqua rilasciandola con gradualità nei corsi d’acqua si possono trasformare in efficaci strumenti di laminazione; la realizzazione di consistenti e diffusi ampliamenti di sezione dei corsi d’acqua per ridurre il rischio idraulico in modo strutturale, eliminando o riducendo la necessità di costanti e impattanti interventi di riduzione della vegetazione fluviale; la realizzazione di aree allagabili con bassi tiranti in parchi o zone verdi affinché possano fungere da aree di laminazione durante gli eventi piovosi senza ridurre la dotazione di verde”.

Nei vari altri passaggi del documento, la Regione lamentava il fatto che lo Stato tendeva solo a demandare a enti locali a regionali ma invece sarebbe stato necessario “un livello della pianificazione nazionale come soggetto attuatore del Pnacc”. Questi e altri passaggi aiutano a comprendere come spesso a livello territoriale ci sia la volontà e l’esigenza di attuare politiche di adattamento al nuovo clima, ma difficilmente ci sia una risposta unitaria a livello nazionale.

Come ricordano diversi giornali nel susseguirsi dei Governi negli ultimi anni, puntualmente dopo le catastrofi, si è gridato alla necessità di intervenire, spesso disfando piani in essere e riprogettandone di nuovi con tanto di nomi, vedi - ProgettItalia, Strategia Italia, Italia sicura, CantierAmbiente, Piano Suolo - per dare un tentativo di forma alla progettualità che poi resta sempre sulla carta.

Per esempio del Piano Suolo del 2010, con tanto di 2 miliardi stanziati, solo il 5,6% dei lavori tra invasi, sistemazione argini e consolidamenti fu portato a termine. Lo stesso vale praticamente per quasi tutti i piani straordinari degli ultimi anni.

Se in passato a una reale esigenza corrispondeva l’azione - per esempio per le bonifiche che l’Emilia Romagna ha attraversato - oggi corrispondono invece soprattutto annunci che però poi non trovano continuità.

Ai tempi, ricorda lo storico Roberto Balzani, il terreno paludoso nel primo Novecento era di quasi 141.000 ettari, mentre ora sono 16.000 grazie al lavoro degli scariolanti che trasportarono la terra nelle zone paludose, così come vennero poi impiegate idrovore a vapore per drenare le acque e bonifiche integrali per il grano necessario al Paese.

Da metà anni Cinquanta in poi, negli anni dopo la guerra, l’intero territorio è stato caratterizzato come in buona parte del resto d’Italia da costruzioni e cementificazione.

Oggi, tre eventi in sequenza rapida tipici degli effetti legati alla crisi del clima, come siccità seguita da due alluvioni potentissime nel giro di due settimane, hanno messo in ginocchio quasi quattro province che adesso sono costrette a scegliere se salvare città o campi.

Piani, sia per la ricostruzione sia affinché si riparta da una programmazione efficace e lungimirante davanti alle sfide del collasso climatico, sono più che mai necessari fin da subito. Se è ancora difficile quantificare i danni - stimabili in diversi miliardi di euro e per cui si richiede l’accesso alle risorse del Fondo di solidarietà dell’Unione europea - con i primi 100 milioni in arrivo dal Governo (che a breve nominerà un commissario straordinario) si parla di ripristino delle attività connesse all’erogazione dei servizi pubblici, delle infrastrutture e dei primi soccorsi.

Poi però, superata la fase emergenziale, servirà un “Piano per la ricostruzione e la messa in sicurezza del territorio” che possa sia affrontare l’emergenza frane (oltre 300 in tutto il territorio) sia riprogettare la sicurezza dell’Emilia-Romagna per un vero contrasto del dissesto idrogeologico.

La domanda è: vista l’incapacità dimostrata finora dai vari Governi nel mettere ai primi posti la velocità necessaria per adattarsi al surriscaldamento globale e vista la fragilità di un territorio come quello romagnolo che in poco tempo rischia, in casi di nuove alluvioni, di tornare nuovamente sommerso, quanto aspetteremo prima di portare a termine davvero i piani necessari ad adattarci?

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