Ambiente

Tu inquini, io mi dimetto

Il climate quitting spinge sempre più persone a lasciare il proprio lavoro se l’azienda che le ha assunte non si impegna nella tutela ambientale. Che portata ha questo fenomeno e chi coinvolge?
Credit: cottonbro studio
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21 maggio 2023 Aggiornato alle 08:00

Cosa comprare e mangiare, dove abitare, come spostarsi, quali progetti sostenere sono scelte importantissime per chi vuole vivere in modo più sostenibile e rispettoso dell’ambiente.

C’è chi però non si accontenta: sono i climate quitters, persone che lasciano o rifiutano determinati impieghi con l’obiettivo di ridurre il proprio impatto ambientale.

Il lavoro è necessario. Lavoriamo per pagare le bollette e il mutuo, per mettere cibo sulla tavola, per mandare a scuola i figli, andare in vacanza e pagare l’abbonamento al cinema. Ma non solo. Lavoriamo anche per sentirci utili e realizzati.

Il lavoro nobilita l’essere umano, disse qualcuno una volta, ma come ci si può sentire nobilitati e realizzati offrendo le proprie energie (per quanto a fronte di uno stipendio, più o meno dignitoso) ad aziende che operano in senso contrario ai valori nei quali si crede e che accumulano profitti a scapito del Pianeta?

Passiamo 8 ore al giorno (quando va bene) a lavorare, per un totale del 15% della nostra intera esistenza. Se ci fermiamo a pensare è tantissimo tempo. Non è quindi strano che sempre più persone decidano di licenziarsi da posizioni lavorative pur vantaggiose dal punto di vista economico per offrire il proprio lavoro ad aziende in linea con i propri valori. Anche per uno stipendio più basso. Meglio guadagnare meno ma essere a posto con la coscienza.

Il fenomeno del climate quitting si inscrive in quello più ampio delle grandi dimissioni, esploso dopo la pandemia, e riguarda molti ambiti. Non solo le multinazionali energetiche che lavorano con gas e petrolio, ma anche istituti finanziari che investono nei combustibili fossili e il settore della moda e dell’abbigliamento, uno dei più inquinanti al mondo.

Per un’indagine condotta da KPMG nel Regno Unito, il 46% dei lavoratori e delle lavoratrici intervistate ha affermato che vorrebbe che l’azienda per cui lavora dimostrasse una maggior adesione ai criteri ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) mentre il 20% di aver rifiutato un lavoro non in linea con i valori personali.

Tra coloro che danno un peso maggiore all’impegno ambientale del datore di lavoro ci sono i giovani tra i 25 e i 34 anni (il 55% ha dichiarato di tenerne conto), seguiti dalla fascia 18 - 24 anni (51%) e dalla 35 - 44 (48%).

In Italia il 65% degli under 30 ritiene che sia importante fare un lavoro che abbia un impatto positivo sulla società e l’11% di chi ha cambiato lavoro nell’ultimo periodo, o si accinge a farlo, è mosso da motivazioni ambientali.

Questa tendenza ha iniziato a modificare il mercato del lavoro e una strategia di marketing efficace nel mostrare il proprio impegno per la sostenibilità è ora più che mai importante per le aziende, non solo per attrarre nuovi clienti ma anche nuovi candidati per posizioni lavorative.

Alcune imprese si sono già mosse in questo senso, adottando politiche interne green come l’offerta di metodi alternativi di spostamento per i e le dipendenti e la diminuzione dell’offerta di carne nelle mense aziendali; o combattendo attivamente lo spreco di energia, favorendo la raccolta differenziata o richiedendo la certificazione come B-corp.

Se da un lato è un’ottima notizia che sempre più persone vogliano passare a impieghi più green, dall’altro aumenta anche la richiesta da parte delle aziende che però non sempre riescono a trovare personale per le nuove posizioni che la transizione green richiede.

Una ricerca di Linkedin ha reso noto che le offerte di lavori green aumentano a un ritmo maggiore rispetto ai candidati con competenze adeguate. Secondo il social network è sempre più necessario investire nella formazione per preparare le persone a ricoprire ruoli nuovi come quelli di manager della sostenibilità, tecnico delle turbine a vento, consulente solare ed ecologista, anche perché la richiesta per questi posti di lavoro continuerà ad aumentare.

Secondo Confindustria nel 2026 saranno 4 milioni i posti di lavoro che richiederanno una competenza ambientale mentre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che entro il 2030 50 milioni di persone saranno impiegate nel settore delle rinnovabili.

Per contribuire a un futuro più sostenibile non è però necessario diventare tecnici green, anche la semplice scelta del posto di lavoro e a chi e a cosa dedicare le proprie energie e competenze può essere molto importante.

Il climate quitting è sicuramente un fenomeno che riguarda il mondo del lavoro, ma più in generale tocca la coscienza collettiva. Oggi è evidente che per sempre più persone lo stipendio non sia più un criterio sufficiente per la scelta dell’impiego. Se la pandemia ci ha insegnato qualcosa è che non ha senso fare carriera e avere successo se poi quel successo ci schiaccia e contribuisce a distruggere il Pianeta.

Non ne vale la pena, neanche per tutti i soldi del mondo perché, come cantava Bob Dylan, “All the money you made will never buy back your soul”.

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