Ambiente

Investire nel Pianeta è una scelta necessaria

Assicurare un futuro prospero alle generazioni a venire ed eguale dignità a tutte le specie che vivono sulla Terra. Come? Destinando tempo, energie e risorse economiche alla tutela dei nostri ecosistemi
Credit: EPA/CLEMENS BILAN
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27 aprile 2023 Aggiornato alle 16:00

Al di là delle dubbie e ormai facilmente smascherabili operazioni di greenwashing che vedono imprese e brand impegnati nell’evidenziare le loro azioni sostenibili con impatti a breve termine, è innegabile che ricorrenze come la Giornata Mondiale della Terra siano uno strumento comunicativo importante. Soprattutto laddove c’è bisogno che la comunicazione ricominci a svolgere il suo ruolo principale: quello di mettere insieme le persone, di creare una comunità e di spingerla all’azione.

Da quando è stata inaugurata la prima Giornata della Terra, nel 1970, miliardi di persone hanno investito tempo, creatività e risorse per celebrare il Pianeta e per smascherare tutte quelle attività che hanno portato la natura al livello di degrado che molti di noi ormai conoscono.

Erano gli anni della contestazione giovanile che infuocava le strade degli Stati Uniti d’America, gli anni in cui la nascita della coscienza ecologica collettiva stava spostando gradualmente l’attenzione da un “io” egoista a un “io” ecologico. Ad accendere la miccia, uno dei capolavori indiscussi della letteratura scientifica globale - Primavera Silenziosa di Rachel Carson - che portò a enormi cambiamenti a livello istituzionale e sociale e che culminò, proprio nel 1970, nell’organizzazione della prima Giornata per la Terra a cui fece seguito, nel 1972 a Stoccolma, la conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente.

A 23 anni di distanza da quel giorno, siamo qui ad assistere a quella che sembra una inarrestabile crisi ecologica che, oltre a richiedere un cambiamento nei nostri stili di vita e nella percezione che abbiamo del mondo naturale, richiede azioni a breve termine e investimenti finanziari per sostenerli.

Ecco perché, il tema scelto per quest’anno, è stato proprio “investire nel Pianeta”, a voler sottolineare l’importanza di dedicare non solo tempo ed energia ma anche risorse economiche a quella che è la più grande sfida della nostra epoca: assicurare un futuro prospero alle generazioni a venire ed eguale dignità a tutte le specie che vivono sul Pianeta.

Investire nel Pianeta: una scelta necessaria purché etica

Nel 2021, la Banca Mondiale pubblicava un report in cui evidenziava come la perdita di natura renda vano ogni guadagno in termini di sviluppo e privi i Paesi più poveri delle basi che gli possono garantire un futuro equo.

Invertire questo trend richiede un’azione globale trasformativa basata su tre pilastri - approccio economico, una solida base scientifica, una transizione equa e inclusiva - e sei aree destinate a guidare i Governi e informare la cittadinanza globale su come integrare la natura nella pianificazione e nell’attuazione del nuovo modello di sviluppo.

Nello specifico: un dialogo politico globale, progetti di conservazione localizzati, mobilitazione finanziaria, strumenti di supporto decisionale, partnership globali e investimenti finalizzati a rendere il mondo nature positive.

Quest’ultimo approccio richiede l’accettazione che per un periodo limitato di tempo, alcune specie continueranno a scomparire e gli ecosistemi perderanno di funzionalità, fino a un punto in cui la curva si fletterà in positivo grazie alla conservazione di aree chiave, alla salvaguardia degli ecosistemi, al ripristino di habitat e paesaggi e alla riduzione dei consumi e della produzione.

Tra gli ideatori e sostenitori di quest’ultimo approccio è Harvey Locke, conservazionista canadese, co-fondatore e senior advisor della Yellowstone to Yukon Conservation Initiative e di Nature Needs Half secondo cui «investire nel Pianeta equivale a incentivare prima di tutto un flusso di finanziamenti finalizzato a proteggere ampie aree incontaminate come l’Amazzonia o il Congo», una sfida a cui si aggiunge un esercizio politico urgente, ossia quello di unire sotto un unico ombrello la crisi climatica e quella della biodiversità «non possiamo pensare di risolvere nessuna delle due senza un approccio comune. Una risposta efficace ai cambiamenti climatici dipende da una biodiversità in salute e dal raggiungimento di un modello nature positive», spiega a La Svolta.

A puntare l’accento sui cambiamenti su larga scala è anche Sir Partha Dasgupta, professore alla Cambridge University, la cui analisi è meglio conosciuta come il Dasgoupta report pubblicato nel 2021. Al suo interno è spiegato chiaramente come la salute del Pianeta dipenda da un vero e proprio Piano Marshall per la natura, con la differenza che, in questo caso, oltre al ritorno economico verrebbe garantita la sopravvivenza della stessa umanità.

Tra le azioni prioritarie individuate, grande enfasi è data al ripristino - inteso come gestione degli habitat e opere di rewilding che permettano la rigenerazione naturale di terra e oceani – e alla conservazione.

Il report affronta senza mezzi termini uno dei più grandi dibattiti a livello globale che vede homo economicus da un lato e la natura dall’altro. Il problema, infatti, non sarebbe l’economia in sé ma l’uso che ne facciamo, associato al costante depauperamento delle risorse naturali.

In termini pratici, a disposizione dell’umanità vi sono quattro strade: ridurre il consumo pro-capite di risorse a livello globale; invertire la curva della crescita demografica; aumentare l’efficienza nel rapporto tra consumo di risorse naturali e rifiuti così da ridurre la nostra impronta ecologica; e, punto centrale dell’analisi, investire nella conservazione e nel ripristino degli ecosistemi.

Ma dove trovare i fondi necessari? Paradossalmente, ma non troppo, la soluzione alla crisi ecologica attuale e le principali fonti di investimento, risiederebbero nei settori economici che esercitano la maggiore pressione sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici: l’uso della terra e degli oceani, le infrastrutture, l’energia e le attività estrattive. Tutti comparti che, negli ultimi anni, hanno dimostrato una certa reticenza ad agire per il bene esclusivo del Pianeta.

A questo si aggiunge il fatto che la ricerca, e i progetti di ripristino di ecosistemi degradati, possono essere davvero molto costosi e in un mondo caratterizzato da continue e concatenate crisi economiche, i Governi sono spesso restii a dare avvio a piani di investimento i cui effetti non vengano percepiti nel breve termine dall’elettorato. Questo, nonostante svariate analisi economiche abbiano dimostrato come investire nel Pianeta equivalga, invece, a rendere i sistemi economici più resilienti.

A guardare le cifre, secondo il World Economic Forum, gli enti governativi nazionali investono circa 113 miliardi di dollari l’anno in nature based solutions finalizzate alla protezione della biodiversità e ad attività di silvicoltura sostenibile. Il settore privato contribuisce con altri 18 miliardi di dollari per finanziare catene di approvvigionamento sostenibili e compensazioni ambientali.

Tuttavia, per evitare che l’attività umana spinga il Pianeta a un limite tale per cui agli ecosistemi sarà impossibile rigenerarsi, i livelli di investimento dovrebbero raggiungere i 536 miliardi di dollari l’anno entro il 2050.

Un esempio relativo alle difficoltà di investire in settori vitali arriva dalle scienze oceaniche per le quali la percentuale della spesa interna lorda finalizzata alla ricerca e allo sviluppo è decisamente inferiore a quella di altri importanti settori.

In media, infatti, tra il 2013 e il 2017, solo l’1,2% dei bilanci nazionali per la ricerca è stato destinato alle scienze oceaniche, con quote che variano da circa lo 0,02% al 9,5%. Spiccioli se confrontati con il contributo stimato di 1.500 miliardi di dollari dell’oceano all’economia globale nel 2010.

Senza contare il fatto che, in questa distesa d’acqua salata, quasi 4 miliardi di anni fa, una serie di composti chimici si sono uniti tra loro in quello che è conosciuto come l’antenato della cellula, compiendo il primo passo verso la creazione della vita e, tutt’oggi, l’oceano contribuisce a rendere il Pianeta abitabile fornendo servizi ecosistemici fondamentali come l’assorbimento dell’anidride carbonica, il ricircolo dei nutrienti, la regolazione del clima e della temperatura globale e la produzione di risorse in grado di contribuire alla sussistenza fisica ed economica di circa 3 miliardi di persone. Un contributo, quest’ultimo, ancora più importante se letto alla luce dell’incremento della popolazione mondiale che, entro il 2050, raggiungerà la cifra allarmante di 9 miliardi di persone da sfamare. Eppure, gli oceani, sono ancora costantemente sotto attacco. «Nonostante l’economia oceanica contribuisca in modo significativo al Pil di molti Paesi, i flussi finanziari sono spesso stati destinati a progetti business-as-usual che contribuiscono a degradare il capitale naturale, mentre quelli finalizzati a proteggere, ripristinare e gestire in modo sostenibile il patrimonio naturale degli oceani sono ancora insufficienti», spiega a La Svolta, Louise Heaps, global lead on sustainable blue economy di WWF Global.

Un esempio arriva ancora una volta dal profondo blu e da quella che viene chiamata blue economy. Tra le attività individuate per sfruttare al meglio, e in modo sostenibile, gli oceani, ci sarebbero infatti anche l’estrazione di petrolio e di ricchezze minerarie a profondità superiori a 200 metri che, secondo le ricerche effettuate fino a ora, possono danneggiare gravemente la biodiversità e gli ecosistemi marini.

In particolare, le operazioni di scavo e misurazione dei fondali oceanici da parte delle macchine possono alterare o distruggere interi habitat con la conseguente perdita di specie, molte delle quali endemiche.

Inoltre, le attività estrattive smuovono i sedimenti fini sul fondale marino, creando pennacchi di particelle in sospensione che possano disperdersi per centinaia di chilometri e impiegare molto tempo a ridepositarsi andando a influire negativamente sugli ecosistemi e sulle specie commercialmente importanti o vulnerabili. Si teme, infatti, che le particelle possano soffocare alcuni organismi, bloccarne la comunicazione visiva e danneggiare le specie che si nutrono attraverso sistemi di filtrazione.

Infine, specie come balene, tonni e squali potrebbero essere colpite dall’inquinamento acustico, dalle vibrazioni e dalla luce delle attrezzature estrattive e delle navi di superficie, oltre che da potenziali perdite e sversamenti di carburante e prodotti tossici.

L’importanza di investire in educazione, cultura e abitudini

Tra i settori che richiedono investimenti urgenti finalizzati a un nuovo modello di sviluppo e a una relazione diversa con il Pianeta, come sottolineato anche dall’Unione europea con la Strategia per la Biodiversità e la Strategia Farm to Fork, vi è quello agroalimentare.

«Negli ultimi decenni abbiamo lavorato per promuovere quella che è chiamata l’architettura del gusto, che punta solo al rilascio delle dopamine attraverso grassi, zuccheri e sali, a discapito dei principi nutritivi», spiega Giuseppe Nerilli, esperto indipendente per l’ambiente, la sostenibilità e lo sviluppo integrale per Aics e Ipbes. «Abbiamo smesso di investire nell’alimentazione salutare ed è ora di creare una filiera compatibile con le risorse del Pianeta e che punti non solo a una manciata di colture ma a una importante diversificazione».

E considerando che delle 7.039 specie di piante edibili conosciute solo 417 sono considerate coltivazioni alimentari, e di queste solo 15 contano per il 90% del fabbisogno energetico dell’umanità, ampliare l’insieme di opzioni potrebbe essere sicuramente una strategia valida.

Una ricetta, quella di Nerilli, che non può prescindere da una cultura globale che veda, finalmente, la nostra specie come un ingranaggio di una macchina complessa che, per quanto ci ostiniamo a negarlo, non è indispensabile ma… sufficiente.

«Dobbiamo investire nel legame perduto con l’ambiente e le sue risorse, smettendo di dare per scontati tutti i beni e servizi che la natura ci offre. È urgente ritrovare un senso di comunità e trasformare l’azione del singolo in un movimento collettivo che, per definizione è più efficace», sottolinea Serena Giacomin, climatologa e presidente di Italian Climate Network.

Ecco, dunque, che la ragione d’essere della Giornata della Terra, così chiacchierata e spesso sminuita sta proprio nell’accendere i riflettori su ciò che è stato fatto e ciò che ancora manca per creare una comunità globale che abbia voglia di festeggiare la Terra ogni giorno e ogni mese degli anni a venire.

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