Ambiente

Balena, la caccia continua. Non potremmo invece ammirarti da lontano?

Qualcuno sceglie entrambe le cose. D’altra parte, se il turismo chiama, come in Islanda, l’industria risponde (purtroppo)
Credit: Marvin Meyer
Tempo di lettura 9 min lettura
29 marzo 2023 Aggiornato alle 06:30

La via principale di Reykjavik si snoda in discesa o in salita, a seconda del punto di arrivo in città.

Entrandovi dal basso, l’asfalto arcobaleno accompagna la cornice di case in lamiera che guida lo sguardo verso l’Hallgrímskirkja. Al contrario, partendo dalla chiesa, gli occhi si posano proprio su quei colori che allungano l’ultimo tratto della strada. Procedendo sempre dritto, spalle alla chiesa, si arriva al mare. Da qui, andando verso sinistra e superando l’Harpa di Olafur Eliasson, si giunge al porto.

Prima, però, camminando si incontrano negozi, boutique di artisti della ceramica e ristoranti. Il Salka Valka è uno dei più abbordabili, a metà tra il semplice risto pub locale e il ristorante turistico.

Il nome richiama, probabilmente non per caso, uno dei titoli dei romanzi di Halldor Laxness, vincitore del premio Nobel nel 1955 e considerato il maestro della narrativa islandese, Salka Valka per l’appunto.

Il mio compagno e io abbiamo un tavolo preferito, lo stesso - come ci ha spiegato il proprietario - in cui Nikolai Waldau pranza con la moglie. Era il 2021 quando, ridendo, ci ha confidato che ha sempre trovato buffo che volessimo sederci sempre lì «come l’attore di Game of Thrones».

Quel giorno era intento a far assaggiare una pizza marinara a Save, per capire cosa ne pensasse un italiano del suo impasto. Affascinato dal fatto che siamo vegani si è sempre attardato un po’ a parlare con noi, sin dalla prima comparsa sul menù di un’opzione senza secrezioni o tranci di animali.

In quel 2021, tra la pizza e Game of Thrones, nella sala riempita appena dalla musica in sottofondo, aveva voglia di parlare. Di raccontarci di come ha scoperto che nello stufato sua madre ci metteva la carne di cavallo o di quando il padre lo ha portato a vedere il rientro di una baleniera.

Era più facile da vedere, una volta. Bastava andare al porto dopo l’annuncio dell’arrivo della barca e attendere. Si ricordava bene l’impressione della mole del corpo, non ancora gonfio, teso di sangue e muscoli. Sebbene fosse inerte e agganciato alla nave, aveva ancora del nerbo.

Ricorda di come dopo l’attracco i pescatori siano diventati improvvisamente macellai esperti, uno sciame di coltelli che si arrampicava sulla carcassa, smembrandone i vari pezzi. Asportando questo o quello, muovendosi con una destrezza non scontata sul corpo galleggiante e inchiodato alla baleniera che ne aveva decretato la morte. Lo ricordava così bene che sentendolo parlare, potevo quasi sentire la puzza delle secrezioni dell’animale mescolarsi alla fredda aria salmastra del porto.

Ora, ovviamente, per assistervi bisognerebbe andare in un posto specifico. A Hvalfjordur per essere precisi, il fiordo delle balene, sede della Hvalur, la compagnia di baleniere attiva ancora oggi in Islanda.

La storia condivisa degli islandesi e delle balene, va ricordato, non continua per tradizione, bensì per denaro. Denaro che esce dalle tasche del turismo e da quelle dei Paesi in cui si consuma carne di balena (anche lì, sempre più spesso per turismo) come il Giappone.

Un denaro che ha riattivato la pesca dopo che era stata sospesa, rigettando in mare barche solide armate di arpioni. Per intenderci, nel 2021, come riporta il sito della Whale and Dolphin Conservation, 1 kg della parte di carne più pregiata di balenottera boreale è stato venduto per circa 120.000 yen, quindi 847,48 euro.

Più è ricercata la specie, più sale il prezzo, evidentemente. Il consumo, però, non si limita ai tagli di pregio o ai mercati più ricchi.

La Kyodo Senpaku Co., una compagnia di whaling (caccia alla balena), ha da poco iniziato a vendere carne di balena a poco prezzo in tre distributori automatici collocati a Yokohama.

Stando ai calcoli di Insider, il prezzo è praticamente equivalente a quello a cui è venduto il bacon negli Stati Uniti. L’idea è quella di ampliare la richiesta, finanziare e quindi legittimare il mercato del whaling. Soprattutto in luce del fatto che, molto spesso, anche chi consuma abitualmente carne animale a non tollera la caccia alla balena. Per non parlare della preoccupazione collettiva in relazione alla crisi climatica che ha allarmato anche i meno animalisti, visto il ruolo fondamentale svolto dalle balene nel mantenimento dell’equilibrio degli oceani e, per conseguenza, dell’atmosfera stessa.

È addirittura il Fondo Monetario Internazionale a riconoscere che le balene svolgono una naturale funzione di carbon sink, assorbendo una buona porzione della CO2 presente nell’atmosfera.

Ma non è solo la preoccupazione per la collettiva mobilitazione a preoccupare l’industria e a spingerla a provare a innescare un consumo di massa. Se la sensibilità pubblica aborrisce l’idea di una balena inseguita, separata dal branco e dalla prole, arpionata e sfinita, lo fa con calore persino maggiore quando si tratta di specie minacciate. Quelle che, al netto dei fatti, fruttano di più.

Proprio in Islanda, infatti, nel 2018 le baleniere sono state poste in stallo dopo la pesca di un particolare tipo di balenottera azzurra protetta dalla International Whaling Commission, il polo globale responsabile del “management del whaling e della conservazione delle balene”.

Alcune balene, evidentemente, sono più importanti di altre. Per non parlare delle specie marine. Salvo eccezioni, come quella antispecista, quasi nessuno inorridisce alla vista di un peschereccio, anzi.

Eppure, portate il turista medio di fronte a una baleniera, fategli vedere il punto di monta dell’arpione e lo vedrete inorridire, indignarsi perfino. E anche se dopo, probabilmente, consumerà carne di balena, sarà comunque poco a suo agio di fronte alla realtà di una nave specializzata nella caccia alla balena. Vedere un mammifero braccato e ucciso fa sempre più paura che vedere lo scivolo di carico in cui vengono schiacciati e soffocati centinaia di migliaia di pesci.

Il sushi, dopotutto, sta bene con tutto, anche con la tortura.

L’interruzione del whaling, però, non è definitiva e, sebbene si parli di un bando in arrivo, la Hvalur sta ristrutturando due delle sue baleniere attive. Nel porto di Reykjavik.

Ci arriviamo tagliando il vento che frusta noi e i nostri due amici. In verità siamo alla sbadata ricerca delle due baleniere, Hvalur 6 e 7, affondate da Sea Shepherd nel 1986, ma siamo nel posto sbagliato.

Hvalur 8 e 9, invece, galleggiano pigramente nel porto, ormeggiate al molo, mentre un operaio sale e scende dalla scaletta di carico, trasportando i cocci e i detriti della ristrutturazione.

Guardiamo da vicino e ci rendiamo conto che una delle due è già bell’e pronta. L’altra è ancora invasa da calcinacci.

Nell’arrivare, però, notiamo la grottesca contrapposizione degli uffici che propongono le gite di avvistamento delle balene stesse.

Da un adesivo incollato sulle vetrine dei ristoranti nei pressi, una balena dice al turista: meet me, don’t eat me. Incontrami, non mangiarmi.

E infatti, l’avvistamento delle balene è uno dei business turistici più attivi nel presentare un’opzione alternativa al whaling. Anzi, si dice proprio che le due industrie siano in conflitto perché a una servono i cadaveri e all’altra esemplari vivi e numerosi.

Eppure, rimaniamo sempre nel solito quadro. Per quanto osservare sia meglio che trucidare, e su questo non ci piove, sostiamo nell’assetto per cui è il valore di un mercato a determinare quello di una vita animale. Se domani ai turisti smettesse di interessare l’avvistamento delle balene il valore della loro vita crollerebbe. Questo, però, non significa che la presenza di navi nei loro spazi di vita non sia un problema.

L’invasione dello spazio animale è talmente tollerata da apparire persino giusta e lodevole. Ricordo quando 8 anni fa salii su una di quelle barche, contrassegnata da un bel eco-friendly.

Lasciamo perdere per un istante l’impatto ambientale di una qualsiasi barca che sta fuori fino a tre ore per venti turisti e concentriamoci sulla presa dello spazio. Le balene vivono in gruppo, tendenzialmente, e hanno comportamenti conviviali, comunicano e si muovono in un ambiente immenso che, talvolta, comprende anche i pressi della costa.

Le barche entrano in questa area, si frappongono tra i membri della famiglia per avvicinarsi agli esemplari che emergono e, troppo spesso, portano una massa chiassosa che urla a ogni movimento d’acqua. Il comportamento delle balene viene disturbato. E in un ecosistema sempre più fragile come quello marino, questo significa comprimere ancora di più la loro superficie di esistenza.

Ai turisti, ovviamente, nessuno lo spiega. Perché anche la conservazione passa dall’attribuzione di valore. E l’essere umano ha deciso che l’esperienza è sempre e solo possesso, e che questo si realizza mettendo mano, corpo e portafoglio anche laddove è lesivo.

Possiamo tranquillamente dire che esiste un male maggiore, esponenzialmente maggiore.

Sappiamo che il whaling è brutale e inaccettabile. Ma dovremmo anche avere l’onestà intellettuale di dire che tutta l’industria della pesca lo è, sia per il bycatch - ovvero tutti gli animali che vengono pescati involontariamente nelle procedure di cattura del pesce - sia per tutti gli esemplari che vengono estratti dal loro ambiente e uccisi per diletto o consumo, che il più delle volte vanno a braccetto. Nemmeno questo è sufficiente.

Infatti, dovremmo anche sviluppare la sensibilità per capire che anche pagare per fruire con maggiore certezza di un animale rimane un atto pericoloso per l’animale stesso e il suo habitat.

Perciò sì, meglio incontrarsi che mangiarsi, ma forse sarebbe meglio accettare la casualità invece del consumo garantito al 98%.

Sempre in quel 2021 siamo rimasti per settimane in una casa in un fiordo poco battuto dal turismo di massa. In pausa pranzo siamo stati attratti da una fiumana di gente che si è riversata sul molo. Sbucavano un po’ dappertutto, ed erano sia persone del luogo sia lavoratori stagionali invitati a raggiungere il porto dai datori di lavoro. Perché tutto quel marasma? Un branco di balene era entrato nel fiordo.

Sono rimaste nei pressi per qualche giorno, sfiatando e schiaffeggiando l’acqua con code e corpi.

Senza che nessuno le avvicinasse o nessuna barca si muovesse. Incontri così non sono prevedibili e sono sempre più rari. Potrebbero anche non verificarsi mai.

Per questo non hanno un’etichetta del prezzo.

Non siamo costretti a lottare contro la distruzione della vita animale sempre e solo con un’altra mercificazione. Possiamo anche capire che il passo successivo è un cambio radicale di prospettiva. E certo, nel mentre saranno le mezze misure a portare a una riduzione di crudeltà, ma non illudiamoci che esse siano positive, sufficienti o completamente diverse dal polo estremo a cui vengono contrapposte. Per non cadere nella fallacia del terzo escluso, dobbiamo evitare di vedere la situazione in un classico binarismo che integra sempre e solo il profitto come giustificazione di esistenza.

Altrimenti, arriveremo ad adattare le baleniere per farne navi da turismo solo fino a quando non ci sarà nuovamente un guadagno maggiore dalla loro morte.

E allora rimonteremo gli arpioni.

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