Diritti

Drusilla, una professionista a Sanremo

Ogni anno la questione “Donne” al festival è un gigantesco rompicapo: Amadeus ci prova ma non ce la fa. Eppure, bastava lasciare la scena per cinque sere alla complessa e inafferrabile Foer
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4 febbraio 2022 Aggiornato alle 12:49

Amadeus ci prova, ma non ci riesce. Ogni anno affronta la questione “donne a Sanremo” come se fosse un gigantesco rompicapo di cui non trova mai la soluzione: basta con le vallette, avremo delle co-conduttrici! Però specificheremo che sono capaci di stare un passo indietro rispetto ai compagni famosi, e ce ne metteremo dieci, undici, che non si allarghino troppo. Non va bene? Ok, riproviamo: meno co-conduttrici! Ma le scegliamo fra quelle che hanno zero esperienza di conduzione, se sono terrorizzate o impacciate va bene lo stesso, l’importante è che ci siano, su, e quante ne volete!

Amadeus ci prova, ma non ce la fa. E non perché sia un arcigno malevolo agente del patriarcato che vuole la donna sottomessa, ma perché non arriva a capire – come non lo capiscono, davvero, nemmeno i politici o gli amministratori delegati – che le donne non sono figurine intercambiabili. Che fra le donne ci sono delle professioniste, gente che sa fare il lavoro che è chiamata a fare, e gente che invece sa fare bene altri lavori, e non è peccato che su un palco snervante e importante come quello di Sanremo ci vadano quelle che lo spazio se lo sanno prendere, che sanno improvvisare, che si divertono e fanno divertire, che con il conduttore titolare instaurano una dinamica di botta-e-risposta che delizia il pubblico.

Sanremo ti può fare e disfare, può darti una botta di visibilità che dura una vita o tirare fuori solo i tuoi difetti. Ed è un palco impietoso, con una liturgia e un linguaggio difficilissimi da piegare, in cui sei letteralmente sotto l’occhio giudicante di tutto lo Stato maggiore della Rai, che ti fissa dalle poltroncine e può decidere del tuo destino.

È ironico, insomma, che a mostrare al pubblico a casa (e per estensione, temo, ad Amadeus stesso) la differenza fra una professionista del palcoscenico e una che fa un altro mestiere sia stata Drusilla Foer, una che è poco definire un personaggio, e che anche i precisetti delle definizioni di genere faticano a inquadrare. Drusilla Foer è un’attrice interpretata da un attore che interpreta un’attrice, ma è anche qualcosa di più, è un ologramma, un’estensione, è Jem delle Holograms.

Chi come me è stata ragazzina negli anni ’80 se lo ricorda: in una serie animata di enorme successo, Jem era una cantante pop ed era anche un personaggio inesistente, un ologramma proiettato da un’intelligenza artificiale intorno a Jerrica Benton, timida manager discografica. Quell’ologramma non la rendeva un’altra persona: la liberava, tirava fuori la Jem che stava dentro di lei. Ed è quindi giusto che di Drusilla Foer si parli come di Drusilla Foer, perché Drusilla Foer è una persona che esiste. Ha scritto pure un’autobiografia, Tu non conosci la vergogna, uscita da poco per Mondadori. Chiamarla “personaggio” non fa onore alla sua vera natura, che è molto più complessa e inafferrabile. “Unica”, direbbe lei, in una parola.

Insomma, ieri Drusilla Foer è salita sul palco di Sanremo e non c’è stata anima che l’abbia vista (a parte poche, incarognite essenzialiste di genere) che non abbia pensato che tutta quell’affannosa ricerca di Una Donna, anzi di cinque donne da collocare sul palco sarebbe stata molto meno affannosa se ci si fosse orientati subito su di lei, lasciando a casa anche il buon vecchio Fiorello, il cui ruolo Drusilla ha provveduto immediatamente a riempire accrescendolo. Non con le battute a raffica, ma interpretando sé stessa, fra una finzione scenica (“Senta, Coso… Amedeo”) e un momento di commozione per dei complimenti arrivati da Michele Bravi che rischiavano di infrangere proprio quella finzione.

Elegantissima, splendida nella sua non più verde età, capace di far rientrare in un secondo l’allarmante commento di Iva Zanicchi sui suoi genitali (con una risposta che sulla scena è stata molto meno secca di come viene riportata oggi sui giornali) e anche di giocare con il gender panic destato dalla sua partecipazione in certi ultracattolici affamati di polemiche a scopo di visibilità. Presentandosi vestita da Zorro, commentando sul terrore dell’uomo en travesti non ha solo ridicolizzato le loro vibranti proteste: ha anche mostrato la stanchezza di certe uscite di Fiorello sugli “-ismi”, che si trascinano ormai da due anni senza che il grande pubblico si ricordi più quale fosse il casus belli originale.

Il suo monologo piazzato all’una e mezza sembra pensato per essere depotenziato, ma in un programma che non durasse quanto dura Sanremo quella collocazione sarebbe stata giusta dal punto di vista narrativo: quando il pubblico ha familiarizzato con te e li hai tutti dalla tua parte, allora sì puoi permetterti di essere seria e piazzare – con maestria, leggerezza e un filo di emozione governata e contenuta – il discorso con il tuo messaggio.

Insomma, si poteva avere tutto. Si poteva avere Amadeus (per la quota “buoni padri di famiglia rassicuranti e solidi professionisti con un occhio sul gobbo”) e si poteva avere Drusilla Foer per tutte e cinque le serate, a fare Drusilla Foer: avrebbe funzionato, e compito dei vertici Rai era avere la capacità di fare quella valutazione e anche di assumersi il rischio. E si potevano avere più ospiti femminili parlanti, a fare quello che ha fatto Roberto Saviano su Rita Atria ma in altri modi e su altri temi, piuttosto che trattare le donne come bambine o simboli. Invece da stasera si torna all’ordinario, e la nuova co-conduttrice Maria Chiara Giannetta viene investita non solo del ruolo di essere brava come sé stessa, ma anche di essere brava come quella che l’ha preceduta. E non è poco.

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