Futuro

Stiamo sbagliando il modo in cui curiamo i disturbi mentali?

Nel 2021 sono stati presi 44 antidepressivi al giorno ogni 1.000 italiani. Per lo psichiatra Vito D’Anza «Si tende a silenziare con il farmaco», mentre sarebbe più utile puntare su una “medicina” collettiva. Come?
Credit: Jakob Owens
Tempo di lettura 5 min lettura
20 marzo 2023 Aggiornato alle 13:20

Secondo i dati raccolti dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), in Europa consumiamo più antidepressivi rispetto a 20 anni fa: dal 2000, il quantitativo di farmaci assunti per combattere la depressione è più che raddoppiato, registrando un incremento del 147%, seppur con forti differenze da Paese a Paese.

Questo aumento ha interessato anche l’Italia, sebbene in misura minore: si stima che nel 2021 siano state assunte 44 pasticche al giorno ogni 1.000 persone, contro le 39 del 2014. In particolare, la Toscana è la Regione dove si assumono più antidepressivi, con 66 dosi giornaliere ogni mille abitanti nel 2021. Anche il consumo di benzodiazepine, usate per curare ansia e insonnia, è passato dalle 40 dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti del 2015 alle 54,3 del 2021, secondo i dati raccolti dal rapporto Osmed di Aifa (2021).

L’aumento del consumo di psicofarmaci, e in particolare di antidepressivi, potrebbe essere un segnale: è arrivato il momento di rivedere il nostro approccio alla cura della depressione e degli altri disturbi mentali. E l’eccessiva medicalizzazione potrebbe non essere la risposta.

Come spiega Vito D’Anza (psichiatra e portavoce del Forum Nazionale Salute Mentale) a La Svolta, malattie come la depressione sono diagnosticate maggiormente rispetto al passato. «Più depressione viene diagnosticata, più antidepressivi vengono consumati. Il problema è cosa mettiamo dentro la depressione. La forma clinica della malattia esiste ma il problema è l’allargamento degli spazi diagnostici. Oggi c’è maggiore diagnosi, ma diagnosticare di più non vuol dire diagnosticare bene e fare il bene della collettività».

E in alcune circostanze medicalizzare può rappresentare una «scorciatoia» per curare una sofferenza che va affrontata, invece, collettivamente. «Si tende a silenziare con il farmaco senza curare - spiega D’Anza - La risposta medica può essere riduttiva, parziale. Spesso a chi soffre si dà solo il farmaco, lo si visita e gli si dice di passare di nuovo quando starà male». Ma per lo psichiatra chi soffre di un disturbo mentale ha bisogno che al percorso di cura corrisponda una presa in carico che vada oltre lo schema tradizionale della diagnosi e dell’assunzione di un farmaco.

«Lo psichiatra dovrebbe cominciare a fare meno lo psichiatra e più l’operatore della salute mentale - continua - Nel percorso di cura dello psichiatra c’è solo la diagnosi e il farmaco, in quello dell’operatore è compreso molto altro: il corso di teatro, il soggiorno al mare, l’appartamento supportato. Questa è la vera cura della salute mentale».

Per lenire il dolore psichico il farmaco non basta. È necessario intervenire anche su quelli che l’Oms ha definito come “determinanti sociali di salute”, ovvero i fattori che influenzano lo stato di salute di un individuo, di una comunità o di una popolazione e che misurano il grado di disuguaglianze e vulnerabilità dei contesti in cui persone o gruppi di persone si muovono.

Secondo i dati dell’Oms, il nostro Paese occupa in genere posizioni di “metà classifica” per molti degli indicatori, ma si trova in cima per quanto riguarda i tassi di povertà infantile e lo troviamo al quinto posto per i tassi di disoccupazione tra le donne, in prossimità di Spagna e Grecia.«I determinanti sociali di salute sono fattori esterni alla clinica che incidono così tanto sulle persone che influiscono su come si sta al mondo e come lo si percepisce», spiega D’Anza.

È proprio a partire da questo punto che, secondo lui, la psichiatria rivela la sua natura più politica. «Nessun altra branca della medicina ha un rapporto così stretto con la politica come la psichiatria perché ha a che fare con la sofferenza, con il malessere, con i modi di percepire la vita delle persone. E se guardiamo al mondo di oggi vediamo che è inserita in un contesto in cui il numero di poveri cresce, mentre i ricchi sono sempre meno ma sempre più ricchi».

L’idea di una cura che non sia solo individuale ma anche collettiva non è utopia. Dal 2005 D’Anza è direttore del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Pescia, in provincia di Pistoia, uno dei pochi reparti in Italia dove le porte per accedere sono aperte. Nel reparto toscano e nei centri diurni di salute mentale della zona si è cercato di applicare un modello collettivo di presa in carico di chi soffre: «Noi non abbiamo voluto organizzare un corso di ballo all’interno del centro diurno, ma abbiamo individuato alcune scuole del territorio, dove “sani” e “malati” si potessero pestare i piedi. Lo stesso abbiamo fatto per il corso di teatro, che abbiamo voluto aprire a tutti i cittadini, e quello di musica, aperto anche ai bambini. Sono forme che cercano di ostacolare l’esclusione sociale di chi soffre. Perché è la comunità locale in cui siamo immersi, che deve farsi carico delle difficoltà dell’altro».

Leggi anche
Salute mentale
di Chiara Manetti 5 min lettura
Genitorialità
di Costanza Giannelli 4 min lettura