Diritti

Il neonato morto al Pertini e quei titoli fuori dalla realtà

Il soffocamento dato per assodato, la madre e la sua colpa di essersi addormentata come focus della notizia. Scelte che dimostrano l’ignoranza su quel deserto che (spesso) è il post partum
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25 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

“Roma, tragedia in reparto: neomamma si addormenta allattando, muore un neonato”. Oppure: “Il dramma della mamma che si addormenta mentre allatta e soffoca il neonato”. Non basta: “Mamma si addormenta mentre allatta in ospedale, neonato muore soffocato”. E infine: “Roma, si addormenta mentre lo allatta all’ospedale Pertini, il figlio neonato muore soffocato”.

È un rapido campione dei titoli di articoli pubblicati nei giorni scorsi che hanno raccontato la morte di un neonato di tre giorni al reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Pertini di Roma. Contengono, i titoli ma spesso anche i pezzi, tanti di quegli errori che non si sa da dove cominciare.

Il primo problema, però, è l’evidente ignoranza su quello che è il post partum. Chi non ha vissuto l’esperienza del parto – anche da padre, limitandoci ovviamente all’analisi di quello che accade immediatamente dopo la nascita – forse neanche può immaginare.

Il post partum è sia in linea teorica – nella preparazione che si concentra moltissimo sul prima e pochissimo sul dopo – che spesso pratica un deserto affidato al caso e alla fortuna sul personale che si incontra o alle disponibilità economiche delle persone che possono magari pagarsi una stanza privata in un reparto dedicato e così «comprare» più attenzioni. Nel totale fallimento del servizio sanitario nazionale.

La fase seguente al parto sconta infatti più di altre attività, evidentemente ritenute più importanti, la riduzione di personale specializzato (o la loro assoluta non previsione nei protocolli) e la chiusura di nidi neonatali o la riduzione dei neonati da poter ospitare in contemporanea.

Ecco perché - come a esempio nella violenza di genere - anche su questi fatti occorrerebbe fermarsi qualche secondo in più nella scelta dell’angolo giusto e del titolo più adeguato a descrivere i fatti. Considerando ciò che c’è a monte. O almeno dimostrandone un minimo di consapevolezza.

Fateci caso: i titoli citati in apertura tengono tutti come focus, cioè come elemento di massima attenzione isolato all’inizio del titolo, non la morte del bimbo - che sarebbe la notizia, l’unica cosa certa che abbiamo in mano e che invece arriva in seconda battuta - ma la madre che si addormenta e quindi evidentemente lo soffoca - che sarebbe invece una ricostruzione eventualmente da confermare.

Sul web questo è stato segnalato contestando tutti quei titoli che non solo anticipano i risultati dell’autopsia dando per assodata la morte per soffocamento e dunque avvalorando l’unica tesi presa in considerazione: responsabilità della madre che dopo oltre dieci ore di parto avrebbe pure avuto la colpa di addormentarsi stremata. Ma appunto sottolineando come non vengano minimamente tenute in considerazione la solitudine dei neogenitori, il vuoto in termini di assistenza in cui precipitano le madri spesso colpevolizzate se non riescono da subito ad allattare al seno e rimproverate per dubbi e richieste, la mancanza di un percorso chiaro post partum (cosa fare, come, quando, chi deve farlo, cosa dobbiamo aspettarci?).

Senza dimenticare, ovviamente, l’assoluta insensatezza delle norme contro il Covid-19, in certi casi ancora applicate mentre il mondo fuori è tornato al 2019, che da anni impediscono un’assistenza continuativa di partner e famigliari. Tranne, appunto, che comprandoselo in clinica o nei reparti a pagamento degli ospedali.

Bisognerebbe dunque “rigirarli”, come si dice in gergo, quei titoli. Ma non come esercizio di stile: bisogna infatti rigirare anche il pensiero che c’è dietro. “Il dramma della mamma lasciata sola che ha perso il bambino mentre allattava” sarebbe stato forse più azzeccato. Oppure: “Neonato morto al Pertini durante l’allattamento: la madre aveva ripetutamente chiesto assistenza”.

Nessun titolo sarà mai perfetto, chiudere la complessità di un dramma in una riga è un’impresa forse impossibile. Ma chi lavora nell’informazione deve imporsi anche in questi ambiti – forse negli anni meno battuti dall’attenzione deontologica – di fermarsi a ragionare evitando sentenze anticipate. E soprattutto inserendo quei fatti, quando evidentemente non appartengano all’ambito del dolo, nel contesto a cui appartengono e in cui si verificano. Un contesto, quello del post partum, ancora ostaggio di pregiudizi, violenze non solo psicologiche e angosciosamente appeso alla casualità.

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