Economia

La globalizzazione è in crisi?

Pandemia, crisi economica e la possibile recessione in arrivo stanno spingendo molti Paesi a rivalutare il sistema di integrazione dei mercati. Ma quanto è probabile un processo di de-globalizzazione?
Credit: SIMON LEE/unsplas
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18 gennaio 2023 Aggiornato alle 17:00

Che il nostro mondo sia un mondo profondamente globalizzato è una certezza ormai consolidata. Ma gli eventi recenti hanno spinto molti Paesi a mettere in dubbio i vantaggi dell’integrazione dei mercati. Gli anni difficili della pandemia uniti alla crisi economica e alla possibile recessione in arrivo stanno spingendo le diverse economie a rivalutare le loro priorità.

Il rischio di un processo di de-globalizzazione sembra essere lontano, poiché esiste una tale dipendenza economica tra i Paesi e un forte movimento di capitale che tornare indietro dalla globalizzazione appare impossibile. Le conseguenze della guerra in Ucraina ne sono state un esempio. La forte dipendenza energetica tra i Paesi ha mostrato come l’autosufficienza energetica sia una peculiarità di pochi e che la produzione di molti beni sia concentrata in scarse aree del pianeta. Infatti, il conflitto ha svelato le numerose e forti dipendenze presenti, una su tutte: la dipendenza dei paesi dal gas russo. In aggiunta, paesi come la Cina necessitano di numerose materie prime, e sono fortemente dipendenti dalle proprietà intellettuali straniere.

Eliminando la possibilità che si possa veramente tornare a un mondo deglobalizzato, le difficoltà che restano sono molte.

In molti paesi sembra diminuire il tasso di globalizzazione: nella classifica dei paesi più globalizzati gli Stati Uniti sono al 24° posto, dietro alle maggiori potenze europee. Dal termine della Seconda Guerra Mondiale, il ruolo degli Stati Uniti è stato quello di guida verso una crescita comune, creando una economia mondiale integrata tra i vari paesi, fondata sulla penetrazione dei mercati e sui criteri di costo ed efficienza.

Il sistema mondiale creato, secondo l’Economist, si era già incrinato dopo la crisi globale del 2007-2009, poiché l’interesse dell’America a mantenerlo tale è diminuito. Per di più, l’abbandono da parte del presidente Joe Biden delle regole del libero mercato per una politica industriale aggressiva ha sferrato un ulteriore colpo. Lo scorso luglio, infatti, Biden ha approvato la Chips Act, grazie a cui lo Stato fornisce un sostegno di 52 miliardi di dollari alle imprese americane produttrici di semiconduttori.

Il giornale continua spiegando che gli statunitensi vogliono evitare di dipendere economicamente dalla Cina – uno dei tanti timori è la dipendenza dalle batterie cinesi – e per questo stanno volgendo verso misure protezionistiche.

Così, mentre l’economia globale vive un periodo di forte crisi dovuto anche all’aumento dei tassi di interesse, si assiste a un allentamento dell’integrazione globale.

Anche in Europa, la guerra in Ucraina ha portato i diversi Paesi a ridurre le loro dipendenze generando un rallentamento dei rapporti internazionali anche all’interno della stessa Unione Europea. Molti sono gli Stati che allo scoppio del conflitto hanno posto davanti gli interessi nazionali facendo vacillare il mercato unico europeo. Un esempio è la Germania, con la decisione di impegnare 200 miliardi per aiutare le proprie imprese.

L’attuale crisi che stiamo vivendo non può risolversi facendo prevalere i propri bisogni. In questo momento urge una cooperazione tra i Paesi, trovando delle formule di integrazione ancora più efficaci. a esempio, come ribadisce l’Economist, gli Stati Uniti non dovrebbero perdere l’occasione in questo momento di sostenere le potenze emergenti, consolidando i rapporti con esse. Bisogna ritrovare la fiducia nell’idea che un’integrazione economica è ancora possibile, poiché per quanto la de-globalizzazione sia lontana dalla realtà, il ritorno dei nazionalismi lo è sempre di meno.

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