Economia

Lo spettro della globalizzazione

Shanghai, la megalopoli cinese, si ferma per il lockdown. E forse è arrivato il momento di mettere in discussione le fragilità della nostra economia interconnessa
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23 aprile 2022 Aggiornato alle 07:00

Il lockdown di Shanghai, col primo porto del mondo sostanzialmente fermo, i container di merci che si accumulano, le navi in coda per poter scaricare è solo l’ultimo di una serie di eventi che sta cambiando il modo di intendere l’economia globale.

Già la prima ondata della pandemia aveva spinto a ripensamenti e riflessioni, poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina.

Il gas e il petrolio solo solo una parte dei mercati colpiti dalla guerra: le esportazioni di grano, di mais, di fertilizzanti che si sono rallentate o bloccate hanno dimostrato la potenza delle interconnessioni economiche che si sono formate nei decenni, ma anche la loro fragilità.

In mezzo la ripartenza del mondo dopo il Covid, con il surriscaldamento dei commerci e anche qua la logistica che finisce in crisi.

Oggi Shanghai, dunque, insieme a tutte le altre città cinesi finite nella rete delle restrizioni, quando non di un blocco completo. In molti si stanno chiedendo se la globalizzazione sia finita o stia finendo, se stia terminando quest’epoca carica di prosperità e di contraddizioni, che ha portato un miliardo e mezzo di persone a uscire dalla povertà estrema solo negli ultimi trent’anni.

È probabile invece che il sistema stia cambiando, con aziende e Governi orientati a cercare non più di produrre nei luoghi del mondo nei quali il costo è inferiore, bensì in quelli nei quali l’equilibrio tra costi e sicurezza offre maggiori garanzie, che è la strategia che ha cercato di perseguire la Cina fino a oggi.

Alcune imprese - è prevedibile - ricollocheranno le fabbriche, sposteranno componenti strategiche laddove la geopolitica e la politica gli faranno dire che è conveniente, altre non muoveranno un passo.

Ci saranno sempre forze che spingeranno i Paesi del mondo a separarsi - ha scritto qualche giorno fa l’editorialista economico del New York Times Peter Coy - ma ce ne saranno altrettante che li spingeranno a unirsi. O almeno, ci sentiamo di aggiungere, fino a oggi è stato così.

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