Diritti

Scuola e apprendimento: cosa funziona, e cosa no, nel mondo

Aumenta l’accesso all’istruzione nei Paesi più poveri ma si riduce la qualità, soprattutto per le bambine. In India solo il 45% riesce a leggere e comprendere una frase dopo 5 anni di studio
Credit: Magda Biernat
Tempo di lettura 5 min lettura
7 gennaio 2023 Aggiornato alle 08:00

Secondo la Banca Mondiale è aumentato il numero di bambini con accesso all’istruzione nel mondo. Bene, anzi benissimo, ma c’è un però: la qualità dell’istruzione è bassissima al punto che per molti partecipare o meno alle lezioni non fa differenza.

Complice di questa pericolosa situazione è stata la pandemia: la prolungata chiusura delle scuole ha giocato infatti un ruolo cruciale nei grandi passi indietro fatti dagli studenti. Il report The state of global learning poverty: 2022 update calcola che tra febbraio 2020 e febbraio 2022, le scuole di tutto il mondo siano rimaste chiuse per una media di 141 giorni, cifra che aumenta nell’Asia meridionale e nei Caraibi dove, rispettivamente, sono rimaste chiuse per 273 e 225 giorni, gravando non poco sul livello di istruzione.

La realtà è che le condizioni di vita in questi Paesi, infatti, rendono pressoché impossibile sfruttare le tecnologie moderne e la famosa didattica a distanza, tanto discussa nei luoghi più ricchi.

Ma la pandemia in realtà ha solamente aggravato un problema già esistente, visto che già nel 2019 6 bambini su 10 all’età di 10 anni non possedevano i minimi livelli di alfabetizzazione.

Il World Economic Forum evidenzia la discrepanza tra Paesi ricchi e poveri. Se nei primi, alla fine della scuola primaria, è circa il 9% dei bambini a non essere in grado di comprendere ciò che legge, nei secondi la percentuale è 10 volte maggiore.

La situazione peggiora per le donne. Molte non riescono neanche ad avvicinarsi alla scuola. Secondo l’Unicef sono oltre 130 milioni le bambine nel mondo alle quali è negata l’istruzione. In Paesi come l’Afghanistan e l’Iran si cerca di renderle invisibili e silenziose ma quei luoghi non sono certo i soli. Nel sud del Sudan solo una bambina su 4 va a scuola e in Nigeria, a esempio, solo il 17% delle donne comprese tra i 15 e i 20 anni è alfabetizzata. A queste si aggiungono le oltre 120 milioni di spose bambine che, secondo l’Unicef, nei prossimi 10 anni vedranno violato non solo il loro diritto all’istruzione ma anche quello alla vita.

E anche quando le donne riescono ad andare a scuola, questa non è comunque sufficiente. Un sondaggio della Banca Mondiale, condotto su oltre 80 Paesi poveri in più di 40 anni, ha evidenziato una modifica nella parabola di apprendimento: nel sud dell’Asia, le donne che hanno completato almeno 5 anni di studio nel 1960 erano appena il 29%, nei primi anni 2000 la percentuale è salita a 84.

Analogamente, nell’Africa subsahariana si è passati dal 35% al 74%, registrando un incremento del numero di bambine nelle scuole. Numeri che, però, non riescono a rassicurarci se osserviamo l’intera fotografia: nel 1960 in India l’80% di donne era in grado di leggere e comprendere un’intera frase dopo 5 anni di scuola, a metà degli anni 90 solo il 45%.

Le ragioni possono essere molteplici, a partire da un’inadeguata metodologia educativa e da un flusso crescente di alunni che non riesce a essere gestito e assorbito in maniera efficiente. Nell’ultimo decennio, infatti, diversi Stati hanno reso gratuito l’accesso all’istruzione primaria, portando a un aumento degli iscritti tale da non avere insegnanti a sufficienza per coprire la richiesta.

Al tempo stesso, mancano anche gli strumenti e i materiali necessari allo svolgimento delle lezioni. Il risultato? Tanti bambini e bambine che presenziano alle lezioni, ma che da queste non imparano nulla.

La gravità del problema è evidente, ma alle ragioni culturali più ovvie si aggiungono quelle economiche: l’analfabetismo delle nuove generazioni fa perdere ricchezza. L’istruzione è la base formativa di ogni individuo e permette, in primis, di trovare lavoro e poi di ottenere incarichi più remunerativi. Se questo processo si interrompe un Paese già povero va incontro a una perdita economica che secondo la Banca Mondiale potrebbe raggiungere 11 trilioni di dollari, ovvero circa il 17% del Pil globale.

Perdita di ricchezza potenziale e non solo, anche costi che non verranno mai coperti. Sì, perché studiare è costoso e ogni nazione investe nelle nuove generazioni affinché queste realizzino Pil in futuro, ma se ciò non avviene i costi rimangono scoperti. In Guinea-Bissau, uno studente costa in media 425 dollari all’anno, una cifra 10 volte inferiore rispetto agli investimenti dei luoghi più ricchi. Ciononostante, questa cifra rimane comunque scoperta. Uno studente che non apprende è uno studente su cui si investe, ma che difficilmente riuscirà a sviluppare le competenze necessarie a trovare un buon lavoro e a creare reddito.

La situazione è chiaramente inaccettabile. I numeri evidenziano una criticità che non può essere ignorata sia sotto il profilo umano sia sotto quello economico. Definire l’istruzione una priorità e imparare a guardare la realtà di questi Paesi come un nostro problema è essenziale.

Sono poi necessarie risorse finanziarie da investire, docenti preparati e motivati per insegnare e metodi adeguati per approcciare i bambini allo studio. Ultimo, ma non ultimo intervenire sulla disuguaglianza di genere non lasciando più indietro donne e bambine, risorsa fondamentale che non possiamo permetterci di sprecare.

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