Diritti

Gli studenti universitari non ci stanno più

In questi giorni in molti atenei italiani sta montando la protesta contro le aule strapiene e un diritto allo studio per tutti che in molti vedono minato
Credit: Jaime Lopes
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
23 ottobre 2022 Aggiornato alle 20:00

Tempi duri per l’Università italiana. L’anno accademico è iniziato da poco ma non c’è stato nemmeno il tempo per sorridere al nuovo corso che sono iniziati i problemi e di conseguenza le proteste degli studenti, che stanno scendendo in piazza e animando accesi dibattiti social.

Quello attuale è il tempo del tanto celebrato ritorno alla normalità ma se alcuni settori sono riusciti ad assorbire i cambiamenti sociali che la pandemia ha generato e a cogliere nello stop forzato l’occasione per sistemare ciò che non andava, lo stesso non si può dire di quello universitario, che ha tentato di riprendere esattamente da dove aveva interrotto, riportando tutti in aula. O forse no.

Già perché gli studenti non sembrano essere dello stesso avviso e non certo per disinteresse verso la didattica in presenza, ma piuttosto per un motivo strutturale: aule troppo piene per seguire le lezioni in modo idoneo.

Il problema delle aule sovraffollate, con persone costrette ad ascoltare le parole dei docenti seduti sui gradini o in piedi non è nuovo e ha toccato chiunque abbia frequentato un ateneo italiano. Se nell’era pre-pandemica tutto ciò era però vissuto con pacata rassegnazione e alla fine ci si arrangiava come meglio si poteva, ora non è più così. «Dateci spazi per studiare, nulla è stato fatto nei due anni di pandemia», denunciano Udu (Unione Degli Universitari) e Link (coordinamento universitario), interpretando il sentimento dei tanti iscritti che non ci stanno più ad adattarsi.

Basta dare un’occhiata su Instagram per rendersi conto che non si tratti di piccole polemiche isolate ma di un malcontento che attraversa lo stivale, da Milano a Roma e Napoli, passando per Padova, Perugia, Verona, Lecce, Bari e molte altre città universitarie.

Il grido è unanime e corre anche sui numerosissimi gruppi Telegram a tema, che aumentano gli iscritti di minuto in minuto. Ognuno porta alla causa istanze leggermente differenti ma tutte convergono sul fatto che il diritto allo studio vada tutelato in modo diverso da come sta avvenendo al momento, e che ogni opzione debba essere presa in considerazione, compresa la Dad (didattica a distanza), passata da strumento fortemente criticato a possibilità da sfruttare per ovviare al problema delle aule pollaio e consentire anche a chi non può recarsi in loco di seguire le lezioni.

Lo chiedono gli iscritti ai corsi di Bologna, dell’Aquila e di Pisa ma non solo, pensando a studenti lavoratori, caregiver e ai molti fuori sede tornati nei rispettivi luoghi d’origine durante la pandemia e non rientrati più nelle sedi di studio.

A volte si è trattato di una scelta di vita frutto del fatto che gli anni che ci siamo lasciati alle spalle abbiano cambiato e non poco priorità e punti di vista, ma in molti casi a pesare è stato il costo degli affitti di case e stanze, schizzati alle stelle.

Secondo uno studio condotto da Immobiliare.it il prezzo di una singola a Milano si aggira intorno ai 600 euro, in rialzo del 20% rispetto allo scorso anno e dell’8,2% rispetto al pre-pandemia. A Roma si devono sborsare di media 465 euro, a Padova e Firenze 450 e a Bologna oltre 400.

Come se non bastasse, a spingere anche i più titubanti a tenersi alla larga dalle sedi universitarie ci ha pensato il crollo di un edificio del polo umanistico dell’università di Cagliari, che solo perché avvenuti in un orario privo di lezioni ha evitato che la storia fosse raccontata sotto la lente della cronaca nera. Una tragedia sfiorata che ha gettato benzina sul fuoco della polemica e reso gli studenti ancora più insofferente e convinti, non senza ragione, di essere tra le categorie meno ascoltate nel Paese. Basti pensare al totale disinteresse al tema del voto ai fuori sede durante l’ultima tornata elettorale.

Tutti questi tasselli concorrono alla formazione di un quadro poco esaltante che sta appunto portando verso l’impensabile: provare malinconia verso la Dad, sul cui utilizzo però rettori e professori frenano, non credendo rappresenti la soluzione definitiva, piuttosto l’ennesima toppa, da sfruttare in un momento di emergenza, senza però adagiarvisi.

Cosa che non vogliono in realtà nemmeno gli studenti, consapevoli dell’importanza della socialità, ma anche che i tanti problemi che ne ostacolano l’attuazione non si dissolveranno in breve tempo, e che quindi nell’immediato serva almeno salvare il salvabile, ovvero la didattica.

Anche perché là dove qualcosa sembra essere stato fatto in questi anni, la situazione non è migliorata.

L’Università Federico II di Napoli, a esempio, ha inaugurato nuove aule in una delle vele di scampia, in un progetto di riqualificazione urbana e sociale lodevole, ma le aule del centro città continuano a traboccare e gli studenti a lamentarsi.

Perché le Università italiane tornino a essere competitive e a offrire una formazione che sia al contempo d’eccellenza e inclusiva servono sforzi maggiori e unità d’intenti.

In caso contrario a rimetterci non saranno solo gli studenti ma l’intera società.

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