Diritti

Qatar: le famiglie delle vittime chiedono giustizia

Il trattamento dei lavoratori migranti prima e durante i Mondiali appena conclusi a Doha continua a generare polemiche, ma queste non sembrano aver scalfito la passione dei tifosi per i loro club calcistici del cuore
Mammai Bhoo Laxmi, suo marito Mammai Laxman e i loro due figli
Mammai Bhoo Laxmi, suo marito Mammai Laxman e i loro due figli
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
21 dicembre 2022 Aggiornato alle 21:00

Il presidente della Fifa Gianni Infantino l’ha definita «la migliore Coppa del Mondo di sempre». Eppure, quella che si è conclusa il 18 dicembre 2022 in Qatar incoronando l’Argentina come la più forte tra le 32 nazionali partecipanti, è stata per molti versi l’edizione più controversa.

Il primo campionato mondiale che si è tenuto in Medio Oriente e nel mondo arabo ha lasciato dietro di sé numerose polemiche: dalla discriminazione nei confronti delle persone omosessuali al Qatargate, dalle polemiche sulla questione climatica a quelle sul Bisht, il mantello tradizionale del golfo Persico appoggiato sulle spalle del capitano argentino Lionel Messi dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani al momento della premiazione. Per non parlare dello sfruttamento e della morte dei lavoratori migranti ingaggiati per costruire le strutture ad hoc per ospitare partite, pubblico e giornalisti.

Mentre gli organizzatori del torneo hanno fissato il conteggio ufficiale a 40, le stime del Guardian relative a un’indagine realizzata a febbraio 2021 parlano di circa 6.500 vittime. La forza lavoro migrante nel Paese è stimata in 2 milioni, pari a circa il 95% dei lavoratori totali: si tratta per lo più di uomini, provenienti dalle Filippine e dai paesi dell’Asia meridionale tra cui Pakistan, Nepal, Bangladesh e India. È da qui che proviene la storia raccontata dall’emittente tedesca Deutsche Welle di Mammai Bhoo Laxmi, una residente nel villaggio di Humnapur, nello stato indiano del Telangana, che 8 anni fa ha sentito per l’ultima volta suo marito Mammai Laxman. Stava andando in Qatar per lavorare come muratore per un progetto legato alla Coppa del Mondo. Solo un mese dopo la sua partenza, la donna ha ricevuto la notizia della sua morte, con una causa di decesso che non l’ha mai convinta: il certificato ufficiale dice attacco di cuore”.

Laxmi non sa a chi rivolgersi per ottenere un risarcimento. Secondo la Ong Human Rights Watch, in base alle leggi sul lavoro del Qatar, le famiglie di chi muore nel Paese a causa dell’occupazione hanno diritto a ricevere un risarcimento entro 15 giorni dal giorno del decesso. Il problema è dimostrare che si tratta di un decesso legato al lavoro. L’organizzazione Emigrants Welfare Forum chiede un risarcimento per le famiglie come quella di Laxmi, e di classificare la morte di ogni lavoratore migrante avvenuta dal 2010 come un decesso legato alla Fifa e al lavoro.

Il Comitato supremo del Qatar per la consegna e l’eredità ha dichiarato che si sono verificati 3 decessi legati al lavoro e 37 decessi non legati al lavoro. Secondo quanto riferito dal Washington Post, il ministero degli Esteri indiano ha detto che circa 2.400 cittadini indiani sono morti in Qatar tra il 2014 e il 2021, ma non ha specificato le cause dei decessi. L’India, però, non è tra i firmatari della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei loro familiari: secondo Bheem Reddy Mandha, presidente di Emigrants Welfare Forum, «il motivo per cui l’India tace sulle questioni riguardanti le violazioni dei diritti umani dei suoi lavoratori migranti è che se interpella altri governi, sarà messa in discussione anche lei».

Le polemiche e le inchieste sul Qatar, però, non hanno allontanato i tifosi dallo schermo. In un tentativo ben riuscito di sportswashing, ovvero l’utilizzo dello sport come strumento di soft power, di distrazione, il Qatar ha attirato miliardi di tifosi da tutto il mondo. La finale Argentina-Francia ha registrato, solo negli Stati Uniti, una media di quasi 26 milioni di spettatori televisivi. L’uso dello sport come strumento per migliorare la percezione di un marchio o di un’azienda non è una novità: la ragione è che si tratta di un argomento in grado di suscitare emozioni nei tifosi, costruire legami emotivi con le squadre e gli atleti.

Una recente ricerca condotta dalle due studiose Argyro Elisavet Manoli e Sungkyung Kim ha analizzato gli appassionati di sport e il loro rapporto con una squadra: i comportamenti discutibili delle squadre e dei club e le critiche nei loro confronti non hanno molta importanza. La professoressa Manoli ha spiegato sul sito d’informazione The Conversation che evitare di discutere di controversie sulla loro squadra del cuore è un modo per proteggere il forte senso di identificazione che deriva dall’essere un fedele membro di una fanbase. Per questo, probabilmente, le società sportive non si sentono particolarmente motivate ad agire in modo responsabile dal punto di vista sociale o ambientale. Un altro studio non ha mostrato alcun collegamento diretto tra responsabilità sociale d’impresa e brand equity dal punto di vista dei tifosi.

I risultati suggeriscono che anche se i tentativi di ripulire l’immagine di una nazione o di un’organizzazione attraverso lo sport fossero in aumento, questo non cambierebbe le cose per molti tifosi, disposti a chiudere un occhio sul comportamento del proprio club per via della lealtà verso la squadra.

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