Diritti

Africa: l’unione fa la forza

Il Presidente Usa Biden propone nuovi trattati e un seggio di membro permanente al G20 per l’Unione Africana. Forse si sta aprendo un nuovo orizzonte, ma occorre unità
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden stringe la mano al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa durante un incontro bilaterale nell'Ufficio ovale della Casa Bianca a Washington, D.C., venerdì 16 settembre 2022.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden stringe la mano al presidente sudafricano Cyril Ramaphosa durante un incontro bilaterale nell'Ufficio ovale della Casa Bianca a Washington, D.C., venerdì 16 settembre 2022. Credit: Pete Marovich - Pool Via Cnp/CNP via ZUMA Press Wire
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13 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Non c’è bisogno di richiamare la famosa frase del Gladiatore Massimo nel primo scontro al Colosseo, quando compresa la tragedia imminente dice «qualsiasi cosa uscirà fuori da quei cancelli, avremo maggiori possibilità di sopravvivere se combatteremo uniti», per rilevare l’importanza dell’unione di fronte alle situazioni di difficoltà.

Del resto, senza citare i film, basta ricordare il vecchio detto “l’unione fa la forza”, anche se sembra che la sua logica si sia persa nel tempo, almeno a guardare alcuni nostri connazionali che arriverebbero forse anche a dividere le città, in nome di una storia poco studiata e poco conosciuta.

È di questi giorni il crescente rilievo che l’Africa sta assumendo nello scenario mondiale (e non solo per il ruolo che le sue risorse stanno assumendo a causa del conflitto russo-ucraino e perché si presta a divenire altro terreno di confronto e scontro tra blocchi che sembravano tramontati): il Presidente degli Stati Uniti ha infatti invitato i capi di stato africani a Washington per discutere nuovi accordi commerciali e ha anche proposto la nomina a membro permanente (e non più di semplice invitata) all’Unione Africana.

L’Unione Africana quindi come l’Unione europea è chiamata a tale consesso, che ha a oggetto – tra l’altro – lo sviluppo sostenibile mondiale e la stabilità finanziaria, per fare sentire la propria voce e ad assumere decisioni.

In relazione agli accordi commerciali, un invito che viene da più parti è quello di agire uniti per ottenere accordi multilaterali e non bilaterali per ciascuno stato: il tal modo si potrebbe ottenere di più ed evitare liti interne legate al rispetto dei trattati tra stati africani appartenenti a unioni regionali, quali a esempio l’East Africa Community (che rappresenta in scala diversa e non altrettanto sviluppata un’organizzazione simile alla nostra Unione europea).

In tema di scambi commerciali, gli Stati Uniti hanno già posto da tempo in essere varie agevolazioni in favore dell’Africa quali a esempio il programma Agoa (African Growth and Opportunity Act), che sebbene non sia molto utilizzato dagli Stati africani, offre almeno sulla carta molti vantaggi in termini di sviluppo non solo economico ma anche umano, in quanto si basa sul seguente do ut des: niente dazi in entrata negli Stati Uniti per determinati prodotti africani, se gli stati esportatori si dimostrano impegnati nel rispetto dei diritti umani e nel creare un’economia di mercato.

Sempre in materia di scambi commerciali, dal canto loro gli stati africani hanno posto in essere un accordo continentale che facilita, o almeno dovrebbe facilitare, gli scambi interni attraverso l’Acfta (African Continental Free Trade Agreement) che dovrebbe condurre i Paesi aderenti (sulla carta sono 53) ad abolire i dazi doganali entro il 2030.

Il trattato, adottato nel 2019 e diventato operativo per il deposito degli strumenti di ratifica necessari il primo gennaio 2021, è stato esaltato dai media internazionali e da quelli italiani, i risultati si stentano però ancora a vedere (al momento non risultano scambi in essere sotto l’accordo); senza volere considerare le guerre commerciali che avvengono in varie regioni africane su vari generi alimentari (una tra le altre, la guerra commerciale sulle uova tra l’Uganda e il Kenya, che impone un dazio di importazione; da notare che entrambi i Paesi fanno parte dell’East Africa Community che è volta - tra l’altro - a facilitare gli scambi commerciali tra i Paesi membri).

Anche in questo caso, comunque, è chiaro: se i leader africani aderiranno ad accordi bilaterali diversi con gli Stati Uniti, di fatto mineranno le basi dell’accordo panafricano (sul punto suscita qualche perplessità che i media africani si stiano preoccupando giustamente per questo aspetto, ma non sembrano avere sollevato medesime attenzioni con riferimento alla Cina, la quale procede sempre con l’approccio bilaterale, per meglio ottenere i vantaggi legati alla sua posizione di forza).

E qui torniamo al concetto dell’uniti si vince, se non vi fossero alcuni ma.

Spesso siamo portati infatti a considerare l’Africa come un solo Paese, al massimo distinguendola in due parti attraverso la linea del deserto del Sahara. Gli africani stessi, anche quelli delle varie diaspore (mi riesce difficile pensare che vi sia una sola diaspora tra popoli spesso così tanto diversi) parlano di sé stessi quali un tutt’uno, in un modo da porre quasi invidia a noi europei in senso di unitarietà.

Ma quale è la realtà?

Per rimanere sui vecchi detti, si dice spesso che tutto il mondo è paese e se l’Italia è il Paese dei campanili, l’Africa non sembra tanto diversa.

In un continente in cui molti dei confini degli stati sono stati tracciati con la riga dalle potenze coloniali durante la conferenza di Berlino del 1878, non abbiamo solo 54 Paesi (o 56, se aggiungiamo quelli il cui stato non è certo, quali il Someliland e il Sahara Occidentale), ma abbiamo tantissimi popoli spesso accumunati più dalle lingue imposte dai colonizzatori che da altro.

Nella sola Etiopia, spesso esaltata quale mercato emergente per gli investimenti, convivono circa 80 etnie a fronte di circa 100 milioni di abitanti, in un equilibrio che si presenta assai precario. Si pensi ancora a Tutsi e Hutu del Ruanda e il genocidio degli anni 90, di cui si sente ancora l’eco.

Ben venga quindi l’invito all’unità e la proposta del Presidente Biden di riconoscere un ruolo di membro permanente del G20 all’Unione Africana: tale posizione in qualche modo rafforzerà il principio di unità d’intenti, anche se purtroppo le crepe già esistono e esisteranno anche a causa degli interventi americani.

Si pensi a esempio, che proprio a causa di pressioni delle industrie americane, il Kenya sta aprendo agli Ogm (organismi geneticamente modificati) e all’uso della plastica, mettendosi in contrasto con il resto dell’East Africa Community, che ha un approccio del tutto opposto (ne sia di esempio il Ruanda in cui le buste di plastica sono state messe al bando sin dal 2008). Si pensi inoltre alla politica scellerata dell’abbigliamento usato imposto dagli Stati Uniti che impedisce la nascita di industrie tessili nazionali, ponendo gli stessi stati consumatori in contrasto tra essi per riuscire a sviluppare una produzione domestica.

Insomma, ancora una volta si pone il tema del rapporto tra Occidente e il non-Occidente, dove non sempre le buone intenzioni sono accompagnate da azioni coerenti: per questo una volta ancora, l’unità può davvero fare la differenza.

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