Diritti

Votare o non votare, questo (non) è il problema

Il voto è una responsabilità e un dovere. Eppure molti fuori sede (e non solo) oggi non potranno farlo. Poi c’è chi non vuole farlo. Ma solo chi ha già tutto può scegliere di non lottare per i propri diritti
Credit: Jin Yu/Xinhua via ZUMA Wire
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25 settembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Le motivazioni dell’astensionismo per queste elezioni sono varie, dall’assenza di fiducia nei partiti a quella nell’istituzione stessa del voto. Quest’ultima è probabilmente la più preoccupante perché, di fatto, la sua presenza o assenza è un buon indicatore della salute di una democrazia.

Il voto è l’espressione del potere delle persone riconosciute come cittadine, e infatti è un vero e proprio privilegio riservato a coloro che lo Stato-nazione legittima formalmente come membri della sua continuità territoriale. In Italia la decostruzione del valore del voto è un lavoro incessante, operato dalle coalizioni partitiche che da anni fanno sgambetti alle legislature in modo che non raggiungano il termine, forzando quindi, il Presidente della Repubblica, a scegliere tra l’avvio delle consultazioni in Parlamento per la formazione di un nuovo governo e l’indizione di nuove elezioni. Ma ridurre la dequalificazione del voto al solo operato intraparlamentare sarebbe estremamente miope. Il voto, per cominciare, sta venendo nuovamente ristretto.

Infatti, circa 6 milioni di italiani non possono accedere a una pratica che spetterebbe loro per diritto. Le persone coinvolte sono sia quelle che lavorano e vivono fuori sede, impossibilitate dai costi e dall’inflessibilità del nostro sistema dei seggi a esprimere una preferenza, sia quella a cui non è riconosciuta la cittadinanza. Questa, per come è strutturata ora, può quasi essere ascritta ai beni di lusso, concessa per meriti straordinari, negata a chi la dovrebbe ottenere per diritto ordinario, e trattenuta nelle mani di chi, semplicemente, nasce avendo genitori che già la possiedono.

L’assenza di queste persone dalle urne è una scelta politica, ormai si può dire, corroborata da chi teme il voto di queste persone e da chi è politicamente troppo pigro per dare ai cittadini non riconosciuti la possibilità di partecipare alla vita politica e sociale del loro Paese.

Il voto, poi, viene continuamente svuotato da una certa vena populista che si propaga per il nostro Paese come un batterio che, sfortunatamente, è perfettamente in grado di attecchire. Dichiarare che il voto non serve priva i cittadini del loro potere sul Parlamento, producendo direttamente una concentrazione molto più ristretta e ideologica del potere di voto. Infatti, gli elettori che non rinunciano alle elezioni sono coloro che credono di poter esercitare un voto che abbia un peso o che possa ingrossare le fila del partito di affezione. E questo significa, che alla fine della fiera, votano principalmente le persone schierate a priori e che la ponderazione del voto viene sempre meno e, con essa, le pretese nei confronti di chi costituisce i partiti.

Il voto è un’espressione di potere e come tale agisce e si modifica in base alle reazioni collettive allo stesso. I campi, quelle aree che Bourdieu identificava come spazi sociali dentro cui sono svolte attività sociali e consociate, sono dei veri e propri domini e i campi di potere sono quei domini capaci di deformare lo spazio attorno a loro e avere ripercussioni più o meno diffuse. Maggiore è la diffusione, quindi la deformazioni degli spazi circostanti, maggiore è il potere, o meglio il riconoscimento dello stesso.

Quindi, declinando il voto in questa prospettiva, maggiore è il potere attribuito alla scelta elettorale, più forte sarà la sua capacità di intervenire per modificare i parametri della socialità. Al contrario, a una maggiore riduzione della sua validità corrisponde un’effettiva diminuzione del suo potere. Perciò, riconoscere e invogliare il non-voto significa accrescere direttamente il potere dei partiti sull’elettorato attivo. Ed è evidente che questo fatto ha portato a un aumento radicale delle proposte elaborate non tanto per il cittadino, ma per il cittadino-consumatore.

Svuotato del suo valore politico, il cittadino diventa l’elemento da cui estrarre il valore di cui si nutrono i partiti: il consenso. Trattandosi di un consenso altamente mediatizzato e privato di forza politica, esso non deve nemmeno essere più espresso come voto concreto, piuttosto come presa di posizione a priori. E infatti, per molti partiti è sufficiente essere parte oppositiva in Parlamento e non puntano più a vincere le elezioni per poter realizzare politiche che abbiano risonanza con i valori e i bisogni dei cittadini. Il cittadino-consumatore è un’identità sociale a cui l’elettorato passivo (quello che viene votato) offre prodotti e non più politiche.

Dunque, il diritto di voto viene ulteriormente dequalificato come mero potere d’acquisto, sempre più accentrato nelle mani di pochi privilegiati. Esercitare il proprio diritto di voto sembra perciò inutile agli elettori, anzi, quasi sbagliato. Perciò l’astensionismo cresce e l’ideologia astensionista con lui. L’astensione è anch’essa uno strumento potente, quando riconosciuto come protesta, ma se si propaga semplicemente come prassi è indicativa di un sistema che non funziona in maniera propriamente democratica. I partiti ci mettono meno impegno e i cittadini pure, svogliatezza politica e mentalità reazionaria (ostile al progresso) si diffondono e la democrazia diventa statica, lenta, incapace di rispecchiare le necessità fondamentali di chi la abita.

Naturalmente, votare non risolve automaticamente le cose. Riconoscere il valore del voto in parte sì, come pure ridurre la distanza tra partito e cittadino. E non nelle modalità personaliste a cui siamo abituati, ma nella misura in cui gli elettori si attivano e protestano, scrivono, comunicano con i partiti rivendicando e denunciando ciò che ritengono essere inadeguato. Ed eventualmente non rieleggendoli ad aspettative tradite.

Gli effetti di questo costante sgretolamento sono agilmente misurabili. In un sondaggio di CNC media e Il sole 24 ore sull’opinione dei giovani sulle elezioni politiche, realizzato su un campione di 23.000 risposte, si evince che circa il 56% dei rispondenti ha poca fiducia nella politica, il 33% non ne ha nessuna, il 10% abbastanza e appena l’1% molta. In buona sostanza le nuove generazioni, quelle il cui futuro viene definito in maniera maggiore dagli eventi odierni, temono di non poter contare sulla politica.

Nonostante ciò, i giovani si interessano di politica e hanno opinioni chiare rispetto ad alcuni elementi, l’87% è a favore del salario minimo e il 52% è favorevole allo ius scholae, una tendenza preziosa che suggerisce quanto nelle prospettive future l’espulsione dalla vita politica verrà drasticamente ridotta. Le priorità dei giovani risultano evidenti: ambiente, tutela del lavoro e garanzia del diritto di partecipazione.

Il voto, infatti, è una responsabilità. Significa interessarsi di politica in maniera completa e per uno scopo meno utilitaristico di quello a cui gli ultimi trent’anni ci hanno istruito a fare. Pensare collettivo, pensare in prospettiva e immaginare il futuro, sono tutti elementi propri dell’esercizio di voto.

Gli effetti dell’astensione, dopotutto, sono un lusso per pochi. In un Paese come il nostro, le persone migranti e figlie di migranti, non riconosciute nel loro diritto a determinare l’indirizzo politico del Paese non possono schermarsi dal razzismo e dalle pratiche che inficiano la qualità e la tutela della loro vita votando per quei partiti che offrono prospettive di cambiamento realistico.

O ancora, i lavoratori che non svolgono l’attività dove hanno la residenza, sono tagliati fuori dal poter esprimente mediante voto una preferenza che tuteli le loro necessità specifiche. E così via, verso quel piccolo vertice che sempre può votare e che si può curare di farlo. La forbice tra Paese reale ed elettorato attivo si ingigantisce, invertendo il senso stesso del voto che dovrebbe essere un diritto e non un privilegio.

Infine, c’è un gruppo umano a cui poco si pensa, che è quello che verrà. Votare oggi significa contribuire al percorso del Paese, dare indicazioni sulla strada che interesserà anche i prossimi abitanti, chi ancora non c’è, chi arriverà o sta arrivando.

Nelle modalità attuali, la democrazia elettorale è il sistema in essere e per poterlo rielaborare o modificare con strutture innovative e positive per chi svolge la propria esistenza in Italia, ma non solo, dobbiamo anche assumerci la responsabilità di conoscerla, esplorarla e sapere anche quando è il momento di mettere da parte le velleità personali e sposare la causa pubblica.

Le democrazie stanno evolvendo, come tutto, e presto o tardi approderemo a nuovi modelli ancora più coerenti con la natura popolare e funzionale della democrazia stessa. Sedersi in cattedra e puntare il dito contro il voto, però, è un disservizio civico nonché un esercizio di privilegio. Dopotutto, solo chi ha tutto può esimersi dal lottare per i propri diritti.

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