Diritti

Sesso in Spagna: se non è un “sì” è proprio - decisamente - “no”

Con 205 voti a favore la Camera ha approvato la legge sul consenso esplicito. E non è vero che priva di romanticismo la “cosa”
La Ministra per l'Uguaglianza Irene Montero durante la seconda edizione dei Rainbow Awards in occasione dell'International LGTBI Pride Day lo scorso giugno
La Ministra per l'Uguaglianza Irene Montero durante la seconda edizione dei Rainbow Awards in occasione dell'International LGTBI Pride Day lo scorso giugno Credit: Isabel Infantes/Contacto via ZUMA Press
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
30 agosto 2022 Aggiornato alle 07:00

«Solo sì è sì». Lo slogan che ha risuonato a gran voce nelle piazze spagnole a partire dal 2016 è finalmente legge. Con 205 voti a favore, 141 contrari e 3 astensioni, la Camera spagnola ha approvato in via definitiva il disegno di legge proposto dal governo di centrosinistra e appoggiato dal premier socialista Pedro Sanchez che riforma la legislazione relativa alle violenze sessuali.

Ora, finalmente, qualsiasi atto sessuale in cui una delle persone coinvolte non abbia dato il proprio consenso verrà considerato – e, conseguentemente, punito – come stupro. Non esiste più la distinzione tra abuso sessuale e aggressione sessuale: se non c’è consenso esplicito è stupro.

Cosa è cambiato, concretamente? Finora soltanto nei casi in cui fossero dimostrabili minacce, violenze o costrizioni si poteva parlare di stupro e agire legalmente di conseguenza, mentre silenzi o atteggiamenti passivi della vittima potevano essere interpretati come consenso anche se la persona che aveva subito la violenza negava la consensualità del rapporto.

Ora sarà il contrario e in assenza di consenso affermativo (che non deve essere necessariamente verbalizzato, come vorrebbero i detrattori della legge), il caso verrà trattato come aggressione sessuale.

Nel nostro Paese, che di problemi con il concetto consenso ne ha tanti e radicati, i commenti alla notizia sia dividono tra il gettonatissimo «e quindi ora dovremo far firmare una liberatoria ogni volta?» e i tantissimi «perché, finora cos’era?». Se i primi non sorprendono, i secondi meritano particolare attenzione e, soprattutto, una risposta.

Molti commentatori sono forse genuinamente convinti che nel nostro Paese venga punito come stupro ogni atto sessuale in cui una delle due persone coinvolte non abbia dato (o abbia revocato, in qualsiasi momento dell’atto) il proprio consenso. Si sbagliano.

L’Italia, ricorda Amnesty International, non fa parte dei 12 Paesi europei che definiscono lo stupro come “sesso senza consenso”, in cui oltre alla Spagna rientrano per esempio Danimarca, Slovenia, Islanda, Grecia e Svezia, che hanno varato legislazioni analoghe di recente.

L’articolo articolo 609-bis del Codice Penale del “Bel” Paese (che, ricordiamolo, solo nel 1996 ha stabilito giuridicamente che lo stupro è un crimine contro la persona e non contro la morale pubblica), punisce come violenza sessuale la condotta di chi «con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali» e di chi «induca un altro soggetto a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». La pena è aumentata in presenza di aggravanti, per esempio se i fatti sono commessi con l’uso di sostanze alcoliche o stupefacenti.

Non c’è, in alcun punto della legislazione, un richiamo al consenso. Il reato di stupro è visto come inevitabilmente correlato alla violenza, alle minacce o all’inganno, o all’abuso di autorità. Questo nonostante l’Italia abbia ratificato già nel 2013 la Convenzione di Istanbul, secondo cui lo stupro è un «rapporto sessuale senza consenso» e che stabilisce – all’articolo 36, paragrafo 2 – che il consenso «deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto».

Eppure, di tutto questo – e del dibattito sul consenso che ha interessato gli altri Paesi ma nel nostro si è ridotto a sterili isterismi perché «vogliono cancellare Biancaneve» – non si trova traccia nelle nostre leggi, né nel discorso politico o nei programmi dei partiti politici che si presenteranno alle elezioni il 25 settembre. Probabilmente perché, come ricorda Amnesty International citando i dati Istat, «persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita».

Un pregiudizio radicato e largamente condiviso. Il 39,3% della popolazione (sempre secondo i dati Istat riportati da Amnesty) ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 24% degli Italiani pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Alcool e droghe sono considerate un’aggravante, sì, ma per la vittima: per il 15,1% degli intervistati, una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe è almeno in parte corresponsabile.

Non solo: 1 italiano su 10 pensa che spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 6,2% «le donne serie non vengono violentate» e l’1,9% ritiene che non si tratti di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà. Addirittura, per il 7,2% degli italiani di fronte a una proposta sessuale «le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì», con buona pace della cultura del consenso affermativo e delle battaglie per affermare che «solo sì è sì».

Nella pratica, questo significa che non solo spetta alle vittime dimostrare di aver subito uno stupro – e che questo si sia verificato sotto una delle condizioni citate – ma anche che l’atteggiamento nei confronti di chi denuncia (ce lo ricordano bene i casi di cronaca celebre come quello di Ciro Grillo o Alberto Genovese) sarà, come minimo, di sospetto e che, in un grande concerto di vittimizzazione secondaria, istituzioni e opinione pubblica andranno alla ricerca non solo delle abitudini “sbagliate” della vittima, ma anche di tutti quei gesti o atti che, durante lo stupro, possono essere interpretati come segni che «in fondo lo voleva anche lei».

Quale sia la portata della nuova legge spagnola è evidente a partire dal caso giudiziario che ha dato inizio alla lotta per la sua approvazione, quello dello stupro di gruppo della “La Manada”, che prende il nome dal gruppo WhatsApp creato da cinque uomini accusati di avere stuprato una donna di 18 anni nel 2016 e che su quel gruppo avevano condiviso i video della violenza.

In quell’occasione, la difesa aveva affermato che il rapporto era stato consensuale, perché la vittima aveva lasciato che uno degli uomini la baciasse e che le riprese video erano la prova del consenso della ragazza, perché la mostravano la ragazza immobile e con gli occhi chiusi durante lo stupro. Nonostante l’accusa avesse provato a ribadire che la vittima fosse troppo terrorizzata per muoversi o reagire, il Tribunale di Pamplona aveva dato ragione agli imputati: niente violenza o intimidazione, niente stupro.

Ecco «com’era prima», ed ecco com’è ancora in Italia e in moltissimi altri Paesi. Oggi, in Spagna quella sentenza sarebbe ribaltata: niente consenso esplicito = stupro. Da noi, siamo ancora fermi al primo verdetto.

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