Diritti

I corpi della resistenza

Se sei una donna indigena, povera, attiva nella difesa della tua terra, il corpo è il tuo principale elemento di vulnerabilità. E non solo nei Paesi del Sud
Soni Sori
Soni Sori Credit: Beijing +20 WHRD Campaign
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9 agosto 2022 Aggiornato alle 09:00

Si chiama Soni Sori ed è una Adivasi, il nome che identifica il vasto gruppo dei popoli indigeni dell’India. Ma è anche (e soprattutto) una donna. L’informazione è rilevante perché quando appartieni non a una, ma bensì a due categorie vulnerabili, la tua vita – e soprattutto il tuo corpo – è doppiamente vulnerabile.

Soni è nata nella regione rurale del Chhattisgarh, in India. Non è ricca, e questo è il fattore che triplica le sue possibilità di essere torturata, violata, abusata, arrestata illegalmente e derubata delle sue terre e della sua vita. Ma la matematica non deve distrarti dalla tragicità di ciò che vorrei spiegarti: se sei una donna indigena considerata povera, la violenza che dovrai affrontare assumerà colori, forme e intensità differenti. Il tuo corpo sarà la prima e principale fonte di vulnerabilità.

«L’attacco al corpo di una donna è molto diverso da quello che subisce solitamente un uomo - spiega Soni Sori - La donna viene sempre attaccata con lo stupro […] sulla base del presupposto che ciò che una donna ha di più prezioso sia proprio il suo corpo».

Soni Sori è anche un’insegnante. Nel luglio 2010 è stata imprigionata: in carcere è stata torturata, stuprata e accusata di essere una Naxalita (un gruppo armato maoista indiano). Una volta uscita di prigione, ha aderito a un partito politico e ha denunciato gli abusi subiti. Nel febbraio 2016, lei e il suo corpo hanno subito un altro attacco: alcuni uomini le hanno strofinato sul viso una pasta caustica, ustionandola e sfregiandola. Ora il suo viso parla per lei e per tutte le altre donne: le ragazze indigene che continuano a battersi in prima linea contro il furto delle loro terre ancestrali.

Quello di Sori non è un caso isolato. Survival International (movimento mondiale per i popoli indigeni) ha pubblicato un rapporto scioccante che denuncia la brutale persecuzione delle donne indigene che in India difendono le loro terre dall’imponente corsa all’estrazione mineraria perseguita dal governo del premier Narendra Modi e dalle aziende.

«Le donne adivasi giocano un ruolo centrale nella resistenza alla distruzione della loro terra da parte delle attività estrattive - si legge nel rapporto - Per questo vengono picchiate, arrestate, stuprate, imprigionate e uccise, mentre i loro assalitori agiscono quasi sempre nell’impunità».

Le donne indigene, in tutto il mondo, rappresentano una parte essenziale della diversità umana e hanno un ruolo chiave nelle loro comunità. Sono le custodi di un sapere straordinario, cruciale per proteggere il nostro ambiente e il nostro Pianeta. Sono anche madri perché donano la vita e danno nutrimento, riparo, educazione e amore ai loro figli. Per questo, quando una donna viene uccisa è l’intera comunità a perdere una figura centrale.

Nel corso delle generazioni, le società industrializzate hanno sottoposto le donne indigene e le loro comunità a violenza genocida, schiavitù e razzismo per derubarle di terre, risorse e forza lavoro. Leader indigene come Berta Caceres, in Honduras, sono state uccise per essersi opposte: perché sono donne e perché sono indigene. E il problema non riguarda solo i Paesi del Sud: negli Stati Uniti, i tassi più alti di stupri e aggressioni sono proprio quelli contro le donne native americane.

Tra la violazione delle terre indigene e quella dei corpi delle donne c’è una correlazione. Quasi sempre è un legame invisibile, perché le voci delle donne sono ridotte al silenzio e le loro storie emarginate.

Siamo a conoscenza dell’esistenza dei Nukak dal 1988, un popolo che prima di allora viveva isolato. Quell’anno, un gruppo di circa quaranta persone si presentò all’improvviso nella cittadina di Calamar (El Guaviare), in Colombia. Sappiamo cosa accadde subito dopo questo primo contatto: la morte di oltre il 50% dei Nukak e l’invasione della loro remota foresta tropicale da parte di gruppi armati e coltivatori di coca.

Ma quello che allora non sapevamo, è che a quel tempo le donne nukak pagarono le conseguenze della guerra civile colombiana non solo con la loro terra, ma anche con il loro corpo. Il 7 marzo 2020, venti donne Nukak hanno consegnato alla Commissione Verità (formatasi nell’ambito degli accordi di pace tra il governo colombiano e le FARC - Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) un rapporto sulle violenze sessuali subite: un lungo elenco di abusi che tutti i gruppi armati – legali e illegali – hanno perpetrato ai loro danni negli ultimi trent’anni.

Per le donne, il trauma di essere derubate dei loro corpi è aggravato dal fatto di essere anche derubate delle loro voci. “Raccontare” per loro è estremamente difficile: spesso perché non esiste uno spazio appropriato per farlo e non vengono fatti sforzi per crearlo (nel caso delle inchieste sugli abusi agli indigeni, per esempio, molti dei traduttori sono uomini) ma anche perché molte donne provano vergogna, si sentono in colpa, hanno paura di rappresaglie o di essere ulteriormente emarginate.

Nel caso di un’inchiesta delle Nazioni Unite a proposito di una nuova area protetta proposta in Congo, è emerso che le guardie forestali finanziate dal WWF costringevano le donne Baka a spogliarsi e a restare poi “nude come neonati”. Nel rapporto si legge: «C’era una reticenza culturale tangibile da parte delle donne nel parlare di questi incidenti, se non per dire che si trattava di vergognose “umiliazioni”».

Certamente, ogni storia conta. Ma queste storie – le storie di donne che sono anche indigene e che vengono persino uccise perché proteggono le loro terre e il loro stile di vita – devono essere raccontate. Dobbiamo dare spazio alle loro voci.

Questa violenza contro il corpo delle donne non è casuale, né naturale né senza scopo: ha le sue radici in un più ampio contesto di razzismo strutturale, di colonialismo e di misoginia costruito nel corso della storia per controllare, dominare, sfruttare e infine eliminare la diversità umana – o uno specifico tipo di essere umani.

Facendo luce sulle loro storie e le loro voci, possiamo – e dobbiamo – cercare di porre fine a questi abusi. Bisogna cambiare radicalmente l’opinione pubblica: per i loro corpi e per i nostri, per i popoli indigeni, per la natura e tutta l’umanità.

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