Ambiente

Il cereale che resiste ai cambiamenti climatici

La cañahua è una coltura intelligente che si adatta a condizioni avverse, dalla siccità alle inondazioni. Secondo l’agronoma boliviana Trigidia Jimenéz potrebbe essere una fonte di nutrimento cruciale per il futuro
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 3 min lettura
1 agosto 2022 Aggiornato alle 19:00

Trigidia Jiménez è sempre stata profondamente legata alla terra e alla campagna. È cresciuta in un campo di patate a Mina San José a Oruro, in Bolivia, e ha ereditato l’amore e la dedizione per l’agricoltura dal padre. L’ingegnera agraria ha raccontato la sua storia al quotidiano El Pais: le difficoltà nell’affrontare i pregiudizi e il maschilismo dell’ambiente rurale, ma anche i traguardi raggiunti e i riconoscimenti ottenuti. Proprio alcuni mesi fa, l’Istituto Interamericano per la Cooperazione in Agricoltura (IICA) l’ha definita una “Leader of Rurality”.

Negli ultimi anni Jimenéz si è conquistata uno spazio e un ruolo indiscusso nella produzione della cañahua.

Parente stretta della quinoa, la cañahua è considerata una coltura intelligente, un cereale in grado di resistere a condizioni meteorologiche estreme e praticamente opposte, dalla siccità alle inondazioni: si tratta di una pianta della famiglia delle chenipodiaceae, che cresce in molte zone della Bolivia e del Perù, anche sulle pendici e sulle cime delle montagne, a temperature piuttosto rigide.

La sua straordinaria resilienza e capacità di adattamento rispetto ai cambiamenti climatici la rendono un portento della natura e un potenziale superfood del futuro.

Oltre al notevole apporto nutrizionale, che consente di annoverarlo fra gli alimenti più adatti a una dieta vegetariana o vegana, sembra apportare anche una serie di benefici nell’equilibrio gastrointerico e nei livelli del colesterolo. Pur contenendo pochissimi grassi, è un cibo molto energetico: si stimano circa 340 calorie per 100 grammi di prodotto.

Jiménez ha fondato la sua azienda agricola, la Granja Samiri, nel comune di Toledo, nel sud-ovest della Bolivia. Le condizioni agroecologiche di questa località secondo lei sono particolarmente avverse, a causa del freddo, del peso delle zolle e delle violente raffiche di vento. «In futuro, il cambiamento climatico si aggraverà, portando probabilmente a una drastica riduzione delle precipitazioni. Le specie vegetali dotate di una grande capacità di adattamento di fronte a cambiamenti improvvisi potranno nutrirci in futuro», ha spiegato Jiménez ad América Futura.

La scienziata ha deciso infatti di recuperare le antiche tecniche di coltivazione della cañahua, sperimentate per la prima volta dagli indigeni nell’era preispanica e poi abbandonate dalla colonizzazione in poi, affinandole con le conoscenze scientifiche e tecnologiche dei nostri giorni: inizialmente la produzione occupava solo mezzo ettaro di terra, sufficiente per il consumo annuale di una famiglia.

Nel giro di 20 anni, il raccolto ha trovato la sua fetta di mercato nel sussidio per l’allattamento ricevuto dalle madri in Bolivia, grazie alle 1.500 famiglie che si occupano di produrre il grano in 2.000 ettari. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, circa l’equivalente di 2.800 campi da calcio regolamentari.

Un lavoro lento e costante, durato decenni. La prima volta che si è ritrovata in mano un seme di cañahua, racconta al quotidiano spagnolo, ha sentito una sorta di connessione immediata: «È un po’ complicato da spiegare, è come se avessi ricevuto una scarica elettrica». Insomma, amore a prima vista.

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