Diritti

Sfruttamento: la “zona grigia” della fashion industry Made in Italy

Dopo i casi di Giorgio Armani Operations e Alviero Martini Spa (per i sub-appalti a opifici cinesi dove le condizioni di lavoro sarebbero degradanti) ci si chiede se le enormi dimensioni della filiera produttiva della moda italiana ostacolino i controlli etici
Una modella indossa una creazione parte della collezione Giorgio Armani Donna Autunno-Inverno 2024-25 presentata alla Settimana della Moda di Milano
Una modella indossa una creazione parte della collezione Giorgio Armani Donna Autunno-Inverno 2024-25 presentata alla Settimana della Moda di Milano Credit: ANSA/DANIEL DAL ZENNARO 
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19 aprile 2024 Aggiornato alle 13:00

Borse vendute a 1.800 euro con un costo di produzione di 90, fatte da lavoratori con paghe da 2-3 euro l’ora e turni fino a 14. Questi sono alcuni dei numeri emersi dalle indagini fatte dalla procura di Milano sulla Giorgio Armani Operations Spa: con 6 distretti in Italia e 1 a Hong Kong, è la società che si occupa della fabbricazione dei capi per il famoso marchio di moda. E che, secondo gli inquirenti, non ha «mai effettivamente controllato la catena produttiva». I capi e le borse, infatti, sarebbero stati fabbricati da opifici cinesi, i cui gestori sono indagati per caporalato.

Minuscole realtà, disseminate nelle province di Milano e Bergamo e fuori dal radar del controllo statale e sindacale, che impiegano lavoratori a basso costo e senza alcuna tutela. Il sistema è simile al caporalato in agricoltura, ma è ancora troppo sommerso nel settore della moda. «Sono opifici clandestini, chi ci lavora tende a non denunciare», dice a La Svolta Giordano Fumarola, segretario generale Cgil per il comparto tessile e manifatturiero.

Più un’azienda è grande, più si allunga la catena di appalti e sub-appalti, maggiore è il rischio di trovare condizioni di lavoro al ribasso in coda alla filiera. Apice e base della piramide (la committente e le aziende che producono effettivamente i prodotti) sono mondi lontani.

«Così c’è un rischio maggiore di venire a contatto con aziende in cui nulla è regolamentato», aggiunge Fumarola; di conseguenza «si creano sacche di lavoro illegale che non si riescono a governare, perché sono sconosciute», spesso anche all’azienda che commissiona i lavori.

La Giorgio Armani Operations avrebbe appaltato la fabbricazione dei prodotti a una ditta che, a sua volta, non potendo far fronte alle commesse da sola, si sarebbe affidata a sub-committenti. Appunto, opifici cinesi, gli unici sul mercato che riescono a produrre abbattendo i costi.

Si tratta di una “zona grigia”: «dalla mancata applicazione dei contratti, a salari bassissimi, alla poca sicurezza», spiega ancora Fumarola. Tanti, troppi elementi che «rendono farraginoso qualsiasi tipo di controllo».

La stessa “zona grigia” emersa qualche mese fa, sempre grazie alle indagini della procura di Milano, nella Alviero Martini Spa: i sub-appaltatori erano 8 opifici cinesi nelle province di Milano, Monza e Brianza e Pavia; 197 i lavoratori, 37 dei quali in nero e senza permesso di soggiorno.

Scoppiati due casi “eccellenti”, a rischio c’è la reputazione delle grandi aziende del Made in Italy. A partire dal sistema di controlli interni. Nell’ultimo report di sostenibilità Armani, relativo al 2022, si legge che “le principali anomalie riscontrate riguardano soprattutto i sub-appalti, e si riferiscono a problemi di salute e sicurezza e di gestione del personale”.

Negli atti dell’inchiesta della procura di Milano si parla di un sistema “generalizzato e consolidato”, in atto almeno dal 2017. Termini simili si ritrovano anche nelle indagini su Alviero Martini Spa. Per ora, in entrambi i casi, i giudici hanno nominato un amministratore che controlli la filiera produttiva e garantisca il proseguimento dell’attività.

I vertici della Giorgio Armani Operations, che non sono indagati, hanno assicurato in una nota che la società ha sempre adottato “misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”, e garantito la massima collaborazione con la magistratura.

Fabio Roia, presidente del tribunale di Milano, ritiene necessario costituire un «tavolo con la Prefettura» per analizzare le criticità operative delle aziende di moda, un «settore di mercato di particolare rilevanza per il sistema economico nazionale».

Nel 2023 il settore della moda Made in Italy ha superato i 100 miliardi di euro di fatturato. «Dopo la metalmeccanica è il secondo per numero di addetti, circa 500.000», dice Fumarola. Se dovesse essere confermato il sistema dei sub-appalti agli opifici cinesi, questo rappresenterebbe una minaccia per l’intero comparto, confrontando l’importanza dell’indotto e la concorrenza sleale di chi impiega il caporalato.

«L’Italia è fatta di migliaia di piccole e medie aziende trasformatrici manifatturiere - conclude Fumarola - se non gli diamo linfa, rischiamo di far collassare un sistema produttivo fondato anche su queste realtà».

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