Diritti

Lo “spettacolo” della guerra

I conflitti sono ovunque: c’è chi ne riceve notizia dai tg, dalla tv, dai social, quasi fossero episodi di un reality show. In questi casi, basta spegnere i dispositivi per dimenticarli, per far finta che non esistano. Ma non tutte le persone hanno questo privilegio
Credit: Aleksey Kashmar 
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19 aprile 2024 Aggiornato alle 06:30

Ogni giorno mi sveglio è c’è un po’ più di guerra. Queste mattine non fanno eccezione. Le notifiche pop up fanno a gara per catturare lo sguardo, riportando angolazioni diverse della stessa notizia. Nuovi missili, nuovi progetti, nuovi investimenti, nuove alleanze belliche. Gli eserciti del mondo si condensano in questo schermo che rifiuta di rimanere tra le mie mani, si muove incessantemente attivato da questa o quella bomba, da quell’ordigno in viaggio di cui si osserva la sorte, un’attesa virtuale.

Droni abbattuti, missili detonati, bombardamenti riusciti o sventati. Sotto, dall’altra parte della bomba, morte e distruzione. Brandelli di carne e ossa che punteggiano altrettanti brandelli di case, scuole, ospedali, strade, spazi aperti, spazi chiusi. Il suolo rivoltato come uno stomaco, un rigurgito di detriti, materia organica e non. Un miscuglio polveroso che è il primo lascito della guerra. La morte assoluta, quella che non può nemmeno piangere perché non sempre rimane qualcuno a farlo.

Questo però nelle notifiche pop up non si vede. Le scorro: agenzie stampa, giornali internazionali, nazionali, tutti in corsa a raccontare, a spiegare. Molti, purtroppo, intenzionati a intrattenere, perché la guerra è prima di tutto un’industria, entrata a pieno titolo anche nel terzo settore. Assurdo, perché non ha nulla di culturale e creativo. Eppure.

Oggi, si osservano le guerre direttamente dalle bodycam dei soldati, dai cellulare di chi si trova nei pressi, dalle televisioni che continuano a trasmettere, quando possono. Certo, non tutte le guerre sono uguali, anzi. Ce ne sono alcune che vengono combattute nell’invisibilità più spietata.

Lo spettacolo però non finisce qui. Continua in altri spazi, che sì, sono davvero culturali e creativi: prendi per esempio i film e i documentari sull’atomica, sul terrore atomico: quello per cui (teoricamente) nessuno dei soggetti in grado dovrebbe sganciare una testata nucleare, per non innescare ritorsioni altrettanto nucleari e altrettanto distruttive che porterebbero a una pioggia di atomiche, in un casino radioattivo di alleanze e inimicizie che, di solito, viene raccontato come apocalisse nucleare. Nei film, nelle serie tv e nei documentari, ma anche sui social, nei post e nelle spiegazioni più veloci del tempo.

Lo show continua e la guerra va in televisione, dibattuta allo stesso modo con cui, in altri canali, si dibattono i vincoli amorosi terminati, peggio ancora, nello stesso programma, a cavallo tra amori finiti, trend estetici e opinioni sui reality show. Perché in fin dei conti, anche la guerra sta diventando un reality show, così vero da far paura, ma così continuamente rappresentato nello schermo da portarci a un paradossale distacco.

Nutriamo terrori da film, filtrati, schermati a tutti gli effetti. La morte negli schermi è meno reale, come le immagini dei missili in cielo, che se strizziamo gli occhi e ci distraiamo paiono quasi fuochi d’artificio. Perché basta la distrazione ad allontanarci dalla realtà. Dopotutto non sentiremo il boato, l’onda d’urto, il calore del corpo che si frammenta, il fragore della morte di una persona amata, odiata, ma comunque vicina. Non avremo esperienza dell’odore che produce il sangue mescolato alla polvere. Non saremo noi, non oggi.

Oggi, ad alcuni di noi, basta ancora spostare lo sguardo. Pensare che avremo modo di sopravvivere a tutto, perché quel tutto non sta realmente accadendo, è un prodotto di finzione. Prendiamo le distanze, ci dissociamo, assorbendo la guerra come norma: norma economica, norma ideologica, norma sociale e norma narrativa. Processiamo la guerra dandola per scontata, fruendone come un qualsiasi argomento di conversazione. E restiamo in attesa, ogni giorno, mentre i conflitti aumentano.

Le nostre lingue si allacciano al comparto bellico, si usano termini di morte, militari, di aggressione. Si parla di “armi di seduzione”, di “bombe a orologeria”, di “bomba” per definire qualcosa di bello, di divertente che era, a tutti gli effetti, “una bomba”. Mastichiamo la guerra come fosse pane quotidiano e la diamo per scontata; la scongiuriamo, una sorta di collettivo esorcismo che ci permette di non fare i conti con la realtà del mondo assorbendola come prodotto di consumo.

Militarizzatə fino al midollo, crediamo di non aver nulla a che fare con la guerra e con chi, in guerra, ci muore. Dovremmo fare altro, avanzare pretese, bloccare strade, piazze, palazzi, industrie. Dovremmo fermare il fermabile, interrompere invii e connivenze, interrompere il discorso politico delle guerre. Fare qualcosa. Eppure.

Di questo globo in guerra, di questi conflitti internazionali non chiamati così, della partecipazione diretta o indiretta dell’Unione Europea nelle guerre e nei genocidi in corso, facciamo merce da schermo, così come ci è stato insegnato a fare. Perché se può stare nel riquadro di un dispositivo, allora basta spegnerlo, scorrere le immagini verso la prossima notizia, aprire un’altra app.

Nel mentre i missili piovono e i droni volano. E non a tuttə basta spegnere il telefono per non vederli atterrare.

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