Diritti

Guerra Sudan: un anno dopo

Nella più completa indifferenza della comunità internazionale si consuma, dal 15 aprile 2023, quella che viene definita l’emergenza umanitaria peggiore dei nostri tempi. La Svolta ne ha parlato con Martin Braaksma, capo missione Medici Senza Frontiere nel Paese
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15 aprile 2024 Aggiornato alle 14:00

Le statistiche parlano di cifre tra i 15.000 e i 20.000 morti, ma molti sanno che sono dati stimati per difetto. I numeri, poi, potrebbero moltiplicarsi e addirittura superare abbondantemente il mezzo milione se, come sostengono Onu e osservatori internazionali, il conflitto non si fermerà e non inizieranno a circolare liberamente in tutto il Paese gli aiuti umanitari: la fame, il gravissimo tasso di malnutrizione (per la Croce Rossa Internazionale aumentato del 175% nello screening giornaliero dei bambini sotto i 5 anni) e le malattie nel giro di due mesi potrebbero far schizzare il numero di morti.

Nel frattempo si aggrava paurosamente il dato degli sfollamenti. Secondo Onu e vari organismi sono oltre 8,5 milioni gli individui costretti alla fuga di cui 6,5 all’interno dei confini, 2 fuori. Per capire la drammaticità della situazione basta guardare una qualsiasi mappa degli sconfinamenti dei sudanesi. L’esodo è verso Paesi da cui la gente, in genere, è costretta a fuggire a sua volta per conflitti, instabilità, crisi climatiche, come il Sud Sudan, il Ciad, l’Etiopia, la Repubblica Centrafricana, addirittura l’Eritrea, il piccolo Stato del Corno d’Africa noto per la terribile dittatura che lo governa da oltre 30 anni e che ha un tasso di emigrazione tra i più alti al mondo.

Eppure il Sudan, che oggi “compie” un anno di guerra, sull’agenda internazionale non compare. Nessuno ne parla, nessuno denuncia, nessuno interviene seriamente. Le diplomazie mondiali sono quasi interamente fuori del Paese dallo scoppio del conflitto così come moltissime Ong, operatori umanitari e commerciali. E questa, che si avvia a essere l’emergenza umanitaria peggiore dei nostri giorni, conosce un isolamento assoluto che, ovviamente, aggrava le condizioni.

Il conflitto tra le Forze Armate Sudanesi (Saf) del generale Abdel Fattah Al-Burhan (capo dell’esercito e del Governo golpista) e le milizie paramilitari Rapid Support Forces (Rsf) di Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti”, ha assunto dal suo scoppio, il 15 aprile 2023, dimensioni catastrofiche e oltre a far precipitare il grande Paese africano in una spirale di violenza atroce, ha bloccato una delle “primavere” arabe più riuscite: i movimenti della società civile dal 2018 in poi inscenarono rivolte e manifestazioni di massa che portarono alla destituzione nell’aprile 2019 del dittatore Omar al-Bashir, e alla costituzione di un Governo al 50% formato da civili per la prima volta nella storia del Paese.

Militari e paramilitari, fin lì abituati ad avere il controllo assoluto del Sudan, non hanno mai digerito del tutto l’idea di doversi fare da parte (secondo un accordo il 2023 avrebbe dovuto segnare la definitiva uscita dalle leve del potere politico di esercito e milizie) e hanno preferito entrare in guerra tra loro. Tra gli effetti diretti e indiretti peggiori del conflitto, c’è la questione sanitaria. Tra il 70% e l’80% degli ospedali nelle aree colpite dal conflitto non è più funzionante: molte persone sono costrette a percorrere lunghe distanze per ottenere un minimo di assistenza medica.

Tra le poche Ong ancora presenti in Sudan, Medici Senza Frontiere ha fin qui assistito più di mezzo milione di persone presso ospedali, strutture sanitarie e cliniche mobili. La Svolta ha intervistato telefonicamente Martin Braaksma, capo missione Medici Senza Frontiere in Sudan

Quanti sono i vostri centri ancora aperti? Che attività riescono a svolgere?

Oggi siamo presenti in 30 strutture sanitarie, in 11 diversi stati del Paese. Nonostante non sia sempre semplice fornire un’assistenza medica adeguata a causa delle restrizioni per il personale e per le forniture mediche, i nostri team stanno provvedendo a cure mediche di emergenza, interventi chirurgici, assistenza sanitaria materna e pediatrica, servizi idrici e igienico-sanitari; svolgiamo attività con cliniche mobili per le persone sfollate. Abbiamo inoltre inviato donazioni di medicinali e forniture mediche alle strutture sanitarie e offerto supporto al personale del Ministero della salute. Abbiamo più di 1.000 persone che lavorano nei nostri progetti e la gran parte è personale locale.

Purtroppo però, non sempre riusciamo a fornire un’assistenza medica adeguata dal momento che molte delle nostre strutture sono a corto di forniture, come per esempio il Turkish Hospital di Karthoum.

State registrando un aumento di malattie gravi nel Paese, quali? Come state agendo?

Il sistema sanitario del Paese era già fragile prima dello scoppio del conflitto. Adesso la situazione è ancora peggiore. A causa dei combattimenti ha subito un ulteriore deterioramento e stiamo vedendo effetti devastanti sulla salute della popolazione, tra malattie, malnutrizione, e un accesso alle cure sempre più difficile. L’aggravarsi delle condizioni di vita, la carenza di accesso all’acqua potabile e a servizi sanitari adeguati stanno aumentando la diffusione di malattie e l’insorgenza di focolai. Abbiamo registrato più di 100.000 casi di malaria e abbiamo curato migliaia di persone contro il colera e il morbillo.

Inoltre, la mancanza di vaccini disponibili a causa del blocco degli aiuti ha portato a un aumento di casi di malattie facilmente prevenibili, come il morbillo e la poliomielite. Senza dimenticare che le persone con malattie croniche come il diabete, l’asma o le malattie cardiache hanno bisogno di assistenza sanitaria continua e di farmaci. E poiché molti pazienti non possono raggiungere le poche strutture sanitarie funzionanti, vanno incontro a gravi complicazioni o addirittura la morte. Anche la necessità di cure materno infantili è immensa.

Il blocco degli aiuti umanitari è usato come arma di guerra dalle due fazioni? Cos’è urgente fare per questo problema e come cambierebbe le sorti del Paese?

Il blocco degli aiuti è un impedimento deliberato della fornitura di assistenza umanitaria e sta avendo un impatto devastante sulla vita di milioni di persone in tutto il Paese. I combattimenti e le violenze commesse dalle parti in guerra hanno avuto conseguenze enormi sui civili e causato feriti e morti ma anche tante conseguenze indirette. La guerra ha portato a una situazione di illegalità in tutto il Paese e i saccheggi e gli abusi sono all’ordine del giorno. I dati che registriamo sono allarmanti, e purtroppo ci aspettiamo che la situazione continui a deteriorarsi. Oltre a chiedere alle principali parti in guerra di proteggere i civili, è anche urgente un incremento dell’assistenza per raggiungere milioni di persone in difficoltà.

All’indomani dello scoppio della guerra, un anno fa, molte rappresentanze diplomatiche, Ong, operatori sono usciti dal paese per non farvi più rientro. Chi resta oltre a voi?

Sono pochissime le organizzazioni rimaste e, in molte delle aree in cui lavoriamo, siamo l’unica organizzazione umanitaria presente. Prima dell’inizio della guerra c’erano decine di organizzazioni internazionali che rispondevano in tutto il Paese: ora non ce n’è quasi nessuna. Per una crisi di questa portata è inimmaginabile e inaccettabile, e questo livello di negligenza internazionale è scioccante. Sappiamo che in Sudan ci sono sfide enormi, ma possono essere superate. Noi come Msf ci siamo e sappiamo che è possibile esserci. Per questo chiediamo alle Nazioni Unite e alle altre organizzazioni umanitarie ad aumentare i loro sforzi per fornire l’assistenza necessaria nel paese.

Temete per l’incolumità dei vostri operatori?

In questo momento siamo costretti a operare in un clima di incertezza e insicurezza generale. Questo contesto è ulteriormente peggiorato da molestie, sospetto e criminalizzazione da parte delle autorità sudanesi e delle Rsf. Molte delle nostre strutture sono state saccheggiate e tante delle nostre scorte sono state confiscate. Questa situazione di forte precarietà, aggravata dalla scarsa efficienza del sistema sanitario, rappresenta una barriera significativa all’accesso all’assistenza sanitaria in un momento così delicato come quello odierno. Per questo motivo chiediamo alle parti coinvolte nel conflitto di garantire la sicurezza del personale medico e delle strutture sanitarie; chiediamo inoltre che le ambulanze possano circolare liberamente e che le persone possano accedere facilmente e rapidamente ai servizi sanitari. Inoltre, ribadiamo la nostra richiesta di non impedire il movimento degli operatori umanitari e degli aiuti. Siamo stati più volte oggetto di violenze, anche fisiche, saccheggi e distruzione di beni, con conseguenze sulla sicurezza del personale e sulla capacità di gestire le operazioni.

Cosa chiedete alle parti in conflitto e alla comunità internazionale?

Innanzitutto la revoca del blocco degli aiuti, l’apertura delle frontiere e degli aeroporti. Poi che la comunità internazionale incrementi gli sforzi attraverso la presenza di più attori sul territorio e l’aumento dei finanziamenti. Infine, esortiamo le Nazioni Unite a esercitare una leadership più attiva e incisiva.

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