Storie

Giovanna Botteri: «Parlare di guerra significa mettersi dalla parte di chi la subisce: famiglie, bambini, donne»

Il 15 aprile la giornalista triestina sarà al Teatro Carcano di Milano (insieme a Lella Costa) per raccontare le sue Storie di giornalismo e di vita: «Non bisogna dare niente per scontato: anche la quotidianità, la cosa più banale, ha qualcosa di grande» ha rivelato a La Svolta
Giovanna Botteri
Giovanna Botteri
Tempo di lettura 12 min lettura
8 aprile 2024 Aggiornato alle 14:00

Lunedì prossimo, 15 aprile 2024, alle ore 20:30, il Teatro Carcano di Milano, nell’ambito della rassegna Follow the Monday, ospiterà Giovanna Botteri e Lella Costa, protagoniste della serata Storie. Una serata per pensare e dialogare; un simposio moderno per rievocare storie di giornalismo e di vita, confronti e discussioni con uno sguardo tutto al femminile.

La Svolta ha avuto l’occasione di intervistare Giovanna Botteri, per capire le Storie che hanno caratterizzato la sua carriera come giornalista del servizio pubblico, inviata di guerra, corrispondente da 3 continenti e che le hanno permesso di aggiudicarsi il Premio Ilaria Alpi e il Premio Saint Vincent.

Nel corso della serata Storie, al Teatro Carcano di Milano, la vedremo sul palco assieme a Lella Costa. Come nasce questo sodalizio artistico?

Con Lella ci siamo conosciute tantissimi anni fa, assieme a Teresa Strada, la moglie di Gino Strada. Io ero appena tornata dall’Iraq e abbiamo trascorso una serata insieme per Emergency, dove ci siamo subito piaciute. Avevamo le stesse idee, la stessa visione della vita, la stessa voglia di far qualcosa, di non arrendersi e questa complicità è rimasta intatta negli anni, con storie anche lontane, diverse, ma dove il feeling è sempre rimasto lo stesso.

Cosa dobbiamo aspettarci dal vostro spettacolo, il 15 aprile?

Non so, Lella non mi ha anticipato nulla. Sarà qualcosa di improvvisato, un momento in cui ci si possa confrontare, perché questo è un periodo storico in cui il confronto sembra essere necessario. Kapuściński diceva che noi prendiamo molto di più di quello che diamo nei nostri racconti perché la gente, in qualche modo, si offre, offre la sua vita, offre la sua storia, la sua sofferenza, i suoi drammi e tu li prendi e li racconti e, in questo prenderli e raccontarli, deve esserci pudore. Quindi, ogni volta, è una sorta di relazione affettiva che si stabilisce con un luogo, con una situazione, con le persone che incontri. Nelle storie, dunque, c’è sempre qualcosa di tuo così come, alla fine delle storie, qualcosa di loro resta dentro di te.

Quanto c’è, quindi, di Giovanna Botteri, nelle Storie che racconta?

È impossibile non attraversare le vite delle persone, non attraversare i Paesi senza rimanere in qualche modo coinvoltə, senza che qualcosa ti resti addosso, senza che le cose che vedi ti entrino dentro e credo che in ogni storia che racconti avvenga tutto questo.

Lei ha sempre riportato le “piccole Storie dei grandi eventi”, raccontando i principali avvenimenti internazionali in qualità di inviata speciale: dalla rivoluzione in Romania, alle guerre in Bosnia e Kosovo, sino al G8 di Genova e all’occupazione statunitense in Iraq. Quale, tra tutte le Storie che ha raccontato, le è rimasta nel cuore e perché?

Tantissime. Per esempio, durante l’assedio di Sarajevo, gli Snajper sparavano tutto il tempo sulla gente. Tu uscivi di casa per cercare da mangiare e non sapevi se saresti tornatə. Non c’era luce, c’era pochissima acqua, quindi, era una situazione terribile. In tutto questo orrore, io ricordo donne bellissime, le “bosniache di Sarajevo”, che uscivano di casa sempre perfette, sempre truccate, sempre pettinate. E quella per me è stata una grande lezione: la storia di quelle donne che sapevano come la dignità, la forza, si possa trovare sempre. In mille modi. Di fronte alla follia, al degrado opponi la tua resistenza e qualche volta la resistenza è non abbandonarsi a una situazione terribile.

Un’altra lezione è quella che mi hanno dato le donne di Baghdad che cercavano disperatamente i sonniferi per poterli dare ai propri bambini affinché non uscissero a giocare nei cortili, lì dove arrivava la morte. Nei bombardamenti, infatti, non sempre vieni ucciso da una bomba ma, spesso, anche dalle schegge, perché ogni vetro, ogni finestra diventa un pugnale e, quindi, le mamme cercavano di tenere i propri bambini tutto il giorno a casa, a dormire, piuttosto che fargli rischiare la vita. Queste sono cose che ti toccano, che toccano il tuo quotidiano. Io ho avuto la fortuna di vivere in Occidente, in un Paese ricco, che ha sempre conosciuto la pace. Quello che ho vissuto nelle mie storie mi ha fatto capire che non bisogna dare niente per scontato e anche la quotidianità, la cosa più banale, ha qualcosa di grande, di buono e di giusto.

Quando mia figlia era appena nata, ricordo queste scene: Saddam Hussein bombardava con il gas i curdi che scappavano sulle montagne. A un certo punto, durante questa fuga, un bambino cade e il padre lo prende a calci perché si tiri su e continui a correre. Io avevo appena avuto una bambina e questa cosa mi ha devastata. Lì ho capito cosa significa essere genitori, cosa significa avere dei figli, cosa significa lottare per la loro vita, per mantenerli vivi, per salvarli e di come le nostre proporzioni possano cambiare, da un momento all’altro.

A un certo punto, in Bosnia, in una casa bombardata dove tutta la gente che stava dentro, compresi i bambini, era stata uccisa, io, in questa situazione tremenda, ho visto il sacchetto di un supermercato di Trieste dove andavo sempre. L’orrore è qualcosa a cui un po’ ci hanno abituato dai telegiornali, dai bombardamenti, dai resoconti sul numero dei morti ma, improvvisamente, quando vedi, in quell’orrore, in quella distruzione, in quell’odore di sangue, qualcosa di così banale come il sacchetto di un supermercato, ti rendi conto di come tutto questo entra e può entrare come una condanna a sconvolgere la tua vita e pensi a questa gente che, come te, andava a fare la spesa, a cambiare la maglietta dell’anno prima perché troppo piccola o ad acquistare ciò che serve per i preparativi per il compleanno. Cose banali, di tutti i giorni, che vengono completamente devastate da una situazione di guerra. E se queste, come tante altre, sono le storie che mi sono rimaste dentro, io credo anche che questo sia il modo giusto per raccontarle, queste storie.

Lei arriva da un’epoca in cui il suo era un lavoro da maschi. La guerra la facevano i maschi e la raccontavano i maschi. Cosa è cambiato e cosa possono fare, le donne, oggi, nelle Storie del giornalismo?

Noi abbiamo studiato le guerre sui libri di scuola. Le guerre erano geopolitica, strategia, eserciti. Qualcosa di molto freddo e molto tecnico, fatto di dati, battaglie, come se la guerra fosse solo questo. Improvvisamente, l’entrata nella guerra di occhi diversi, perché l’occhio della donna è un occhio diverso, ha portato a vedere oltre, a vedere altre cose. La storia del sacchetto del supermercato che tu conosci, nella casa dove tutti sono morti e che è stata distrutta, la storia delle mamme che cercano da mangiare di notte, rischiando la vita e che cedono i sonniferi ai figli perché non vadano fuori a giocare, le donne che escono e restano donne anche durante la guerra, anche sotto le bombe, anche senza cibo. Tutto questo, per me, significa andare oltre, con occhi diversi.

Ha dichiarato di aver vissuto con la consapevolezza che, lavorando, sacrificandosi, lottando, avrebbe visto i suoi sogni diventare realtà. Se nelle Storie che verremo a vedere al Carcano, potesse raccontare la sua vita da giornalista, parlerebbe più dei sogni realizzati o della fatica fatta, lungo il percorso?

È complicato. La cosa importante sono i sogni che ho ancora da realizzare. È il sogno quella cosa che spinge sempre ad andare avanti ed è inevitabile che sia difficile, perché altrimenti non sarebbe un sogno. Io ritengo che il flusso della vita sia un insieme di sogni, di battaglie per raggiungerli, e di nuovi sogni e di nuove battaglie, in momenti sempre diversi. Io oggi sono diversa da quando ho cominciato a fare questo mestiere. Il mondo è cambiato, è cambiato il modo di comunicare ma ci sono una serie di cose fondamentali che sono rimaste le stesse. Come dice Montale “L’attesa è lunga ma il mio sogno di te non è finito”. E io continuo ad avanzare nella vita, nel futuro, con nuovi sogni, nuovi ostacoli, nuovi dolori e nuove gioie.

Quali sogni vuole realizzare?

Sai cosa faccio adesso che arriva la primavera? Prima che sboccino i fiori, prendo i soffioni ed esprimo dei desideri. E mi preparo tutto l’anno per questo momento, per quest’attimo. Come nella fiaba del pesce che dice al pescatore “Hai tre desideri”. Ecco, quelle sono le cose che devi preparare per tutta la vita perché quando arriva il momento dei soffioni di primavera o del pesce che ti chiede tre desideri, tu devi essere pronta. Per esempio, al soffione di ieri, ho chiesto che tutti siano felici, me compresa.

Viviamo un periodo in cui c’è un estremo bisogno di dialogare anche dissentendo in modo costruttivo, nel rispetto delle reciproche opinioni ma con persone che possono farci riflettere seriamente o illuminarci. Lei è cresciuta con l’idea dell’happy ending, che le persone buone avrebbero vinto. Alla luce dei recenti fatti di cronaca, ha ancora adesso questa convinzione e pensa di riuscire a lasciare una vena di ottimismo, al termine delle sue Storie?

Sarebbe impossibile per me non solo continuare a lavorare ma a vivere se non lo pensassi. Io ho fatto i vaccini per il Covid ma non ho fatto il vaccino per il cinismo. Non sono cinica e non sono preparata a questo, quindi, devo per forza pensare che alla fine vinceranno i buoni e ci sarà l’happy ending, altrimenti non potrei farcela.

Il sorriso che “si sente” quando parla, a prescindere dalle notizie che dà, conferma quanto dice…

Io ho fatto l’inviata di guerra, ho fatto la corrispondente. I corrispondenti raccontano un Paese. Tu racconti le persone, la guerra, i Paesi. E il sorriso, la cosa buffa, la cosa comica, sentimentale, fanno parte di tutto questo. Io non sono d’accordo quando si fanno queste distinzioni per cui il grande reporter di guerra non può fare il servizio di costume. Non è così perché tu racconti la vita e la vita è esattamente questo: un insieme di cose tragiche, di cose belle, di cose brutte, di cose comiche e bisogna ritrovare tutto questo nel racconto, per poterlo capire. Io non credo nella storia dell’intellettuale sempre e comunque seriə, sempre e comunque noiosə, perché se non sei noiosə non sei credibile. Non è così. La gente ha bisogno di sentire delle storie, ha bisogno di non esser presa in giro, ha bisogno che le si dica la verità e qualche volta ha anche bisogno di essere rassicurata, sollevata e di fare un sorriso.

Il tarlo che attanaglia i regimi dittatoriali, come quelli liberali, resta sempre la propaganda. Nelle sue Storie è sempre riuscita a preservare la deontologia giornalistica e la sua integrità morale da quello che, oggi più che mai, sembra un male inguaribile?

Per rispondere a questa domanda ti racconto una storia. Ero a Baghdad, gli americani stavano bombardando la città. Al Jazeera ci dice che hanno bombardato un ospedale pediatrico, un reparto di natalità dove ci sono le incubatrici con i bambini nati prematuramente e che sono tutti morti. Io vado immediatamente a vedere a scopro che, in realtà, l’ospedale era stato chiuso ed evacuato 3 mesi prima. Allora che cos’è la propaganda? La propaganda è questo. Io sinceramente, pensavo che l’invasione dell’Iraq da parte degli americani non fosse giustificata. Questa era la mia idea ma, di fronte a una notizia falsa, il tuo lavoro è raccontare quello che succede, indipendentemente da quello che pensi, indipendentemente dal fatto che pensi che gli americani abbiano torto e stiano comunque uccidendo delle persone. Tu sei là e in quel momento, ti rendi conto che quella notizia è propaganda, che i bambini non sono morti nelle loro incubatrici quindi lo dici e lo racconti: è questa la linea sottile che c’è tra il tuo mestiere, quello che pensi e la propaganda. Perché la verità tragica e orribile è che la guerra dà il peggio di ognuno ed è molto difficile riuscire a trovare, dopo mesi di conflitto, i buoni e i cattivi: devi semplicemente raccontare quello che succede e provare a far capire a tutti, a casa, quanto importante sia la pace, quanto straordinario sia vivere in una Paese in pace, in cui non hai paura di uscire per le strade, in cui non hai paura di fare la spesa o di andare a dormire, di notte, senza che una bomba ti arrivi sulla testa.

Sono cose che diamo per scontate e che forse dimentichiamo. Bisogna, però, non darle per scontate, non dimenticarle. C’è qualcosa di estremamente importante, cioè la ricerca della pace. Una ricerca che puoi fare restando apertə verso chi non la pensa come te, verso il tuo nemico. La pace è un concetto allargato che tu costruisci in ogni momento, in tante piccolissime cose. È il ponte che costruisci nei confronti degli altri, di quelli diversi da te, che non la pensano come te. Io credo che questo sia molto importante, quindi il racconto della guerra è qualcosa che va al di là del fatto contingente, è qualcosa che investe le nostre vite, il nostro modo di vivere e il nostro pensiero su quello che è la vita e il nostro futuro.

Se vogliamo parlare di fatti più recenti, credo che a Gaza, come in Ucraina, parlare di una guerra e combatterla, significa mettersi dalla parte di chi la guerra la subisce, di chi non la combatte, delle famiglie, dei bambini, delle donne. Io credo che i civili che subiscono la guerra non hanno bandiera, non hanno nazionalità, non hanno appartenenza. Sono vittime e basta. E quindi il racconto delle loro storie, che molto spesso si somigliano, che tu vada da una parte o dall’altra del Dnepr (il fiume che divide il Donbass) sono storie simili. E Io credo che stia un po’ mancando questo senso di tragedia.

Se potesse invitare qualcunə, tra il pubblico del suo spettacolo, chi vorrebbe e perché?

Mi piacerebbe invitare mia figlia. E poi mi piacerebbe invitare quella che ero io alla sua età (o anche un po’ più giovane) per raccontarle due, tre cose. Le direi di non avere paura di andar via di casa, di non riuscire, di non farcela, di affrontare ambienti di lavoro che potrebbero essere ostili, di non aver paura della cattiveria, dell’invidia. Noi viviamo con queste paure e poi, man mano, ci rendiamo conto che la storia della paura è un po’ quella del bullismo. Il bullo, in realtà è uno che ha più paura di te, quindi, che senso ha avere paura? Alla fine tutto si risolve, tutto si fa e anche quando arrivano le cose drammatiche, queste fanno parte della vita.

Lei è nata a Trieste e guardando il golfo ha detto di aver immaginato il mondo al di là dell’orizzonte pensando di poterlo conquistare. Crede di averlo fatto o le mancano ancora nuovi orizzonti, nuovi obiettivi da raggiungere?

Per capire che cos’è il mondo ti basta guardare il mare. Il confine che ti dà il mare. Perché oltre quello c’è il mondo. E se guardi il mare lo vedi. L’importante è sapere che c’è.

Leggi anche