Ambiente

Tutti vogliono assicurarsi un posto a tavola nella transizione energetica

Gli Stati maggiori produttori di petrolio, possiamo purtroppo starne certi, sfrutteranno fino all’ultima goccia il loro prezioso “oro nero” e faranno di tutto per ritardarne la scomparsa. Ecco perché
Credit: EPA/MARTIN DIVISEK  

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3 aprile 2024 Aggiornato alle 11:00

Il petrolio costituisce da decenni la fortuna di molte economie mediorientali. Ma, come tutte le energie derivanti da fossili, è da una parte destinato a esaurirsi, dall’altra nel mirino di sacrosante politiche di conservazione ambientale che ne vogliono ridurre il consumo per raggiungere le tanto agognate emissioni zero (il famoso Net Zero prefissato per il 2050, limitare ben al di sotto di 2 °C il riscaldamento globale e azzerare emissioni nette di carbonio).

I Paesi del Golfo, ovvero i maggiori produttori di ‘oro nero’, alternano consapevolezza (per molti di maniera) a sfrontatezza.

Sentiamo ancora l’eco della clamorosa dichiarazione del Presidente della Cop28 (e ministro dell’Industria e della Tecnologia Avanzata degli Emirati Arabi Uniti) , Sultan bin Ahmed Al Jaber, che durante un meeting online dichiarò «Rinunciare al petrolio salverà il Pianeta? No, ci riporterebbe nelle caverne».

Più di recente, invece, per citare un altro pessimo esempio riportato dal giornalista Ferdinando Cotugno nella sua newsletter Areale, al CERAWeek, la conferenza del settore energie fossili di Houston, organizzata da S&P Global, Amin Nasser, amministratore delegato di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera di stato saudita, asserisce senza alcun imbarazzo, tra gli applausi festanti degli astanti: «Dobbiamo abbandonare la fantasia di fare un phasing out di petrolio e gas. La transizione energetica sta visibilmente fallendo, non ci sarà nessun picco del petrolio, tanto meno al 2030».

Insomma, tutti gli Stati maggiori produttori di petroli, possiamo purtroppo starne certi, sfrutteranno fino all’ultima goccia del loro prezioso liquido e faranno di tutto per ritardarne la scomparsa.

Ma, al contempo, sanno fare affari e sono consapevoli dell’esauribilità della loro pregiata risorsa. Hanno quindi iniziato a guardarsi intorno e a organizzarsi per mettere un piede, se non entrambi, nel territorio di un altro settore energetico in forte espansione: i minerali critici.

Risorse come il litio, il cobalto e le terre rare sono alla base delle tecnologie energetiche cosiddette pulite e delle batterie dei veicoli elettrici.

Senza di questi materiali, la green revolution sarebbe ancora più lenta, e senza i luoghi che producono queste risorse in infinita quantità, la transizione sarebbe poco meno che un’utopia.

Inutile precisare che stiamo parlando, se non al 10%, in grandissima parte, dell’Africa. Anneke Van Woudenberg, direttrice di Raid (Rights and accountability in development), per esempio, è molto chiara: «Senza Congo non c’è mercato delle auto elettriche né rivoluzione verde».

Ed ecco quindi che Paesi ricchi di petrolio come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) sbarcano in Africa. In quel continente stanno aumentando gli investimenti nelle catene di approvvigionamento dei minerali critici, al fine di diversificare i loro portafogli economici, come riporta Foreign Policy (Fp), e di ritagliarsi una partecipazione in questo settore in crescita.

«Vogliono assicurarsi di avere un posto a tavola nella transizione energetica – ha dichiarato a Fp Ahmed Mehdi, amministratore delegato di Renaissance Energy e visiting fellow presso il Columbia University Center on Global Energy Policy - soprattutto in considerazione della carica geopolitica di questo settore».

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal lo scorso anno, Riyadh ha intrapreso fitte trattative per l’acquisto di quote minerarie in diversi Paesi africani mentre gli Emirati Arabi Uniti starebbero per siglare una partnership mineraria da circa 2 miliardi di dollari nella Repubblica Democratica del Congo - la Rdc è il primo fornitore di cobalto al mondo con giacimenti, specie nella regione dell’ex Katanga, che coprono circa il 70% del fabbisogno mondiale, e il terzo di rame - e procacciando nuovi accordi nello Zambia, ricco di rame.

Il Qatar, invece, sta sondando il terreno per giungere a una serie di accordi minerari con la Nigeria. Tutto ciò fa temere per le crescenti tensioni geopolitiche che tali minerali, o meglio, la caccia sfrenata e senza scrupoli a essi, sta creando in varie parti del mondo, in modo particolare in Africa.

La Rdc, è l’esempio più lampante. Il Paese, il più ricco di risorse naturali di ogni genere sul Pianeta e al tempo stesso sfruttato, vessato e spremuto a tal punto da essere tra i più impoveriti al mondo, vive una serie di fenomeni di land grabbing o spietati conflitti al suo interno, quasi tutti generati e condotti da forze esterne, proprio per l’accaparramento dei minerali critici (l’est del Paese, le regioni del Kivu nord e sud e Ituri, sono da decenni teatro di massacri, ndr). Purtroppo, però, non è l’unico. L’arrivo quindi di Paesi terzi sul territorio africano in cerca di risorse, non è mai scevro da preoccupazioni, specie se questi sono senza particolari scrupoli.

«I Paesi del Golfo, sono Paesi dipendenti dal petrolio – spiega sempre a Fp Gracelin Baskaran, senior fellow del Center for Strategic and International Studies - che si rendono conto che la transizione verso l’energia pulita e i veicoli elettrici ridurranno la domanda globale di petrolio, quindi, se vogliono crescere economicamente, dovranno allontanarsi dalla perpetuazione di un modello basato esclusivamente sulla oil-production».

La strategia dei Paesi del Golfo non è orientata solo verso l’esterno. L’Arabia Saudita, a esempio, nel programma Vision 2030, delinea un nuovo corso per la sua economia che mira a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, e ha stanziato circa 182 milioni di dollari per un programma di incentivi all’esplorazione mineraria (il governo stima che il Paese possieda circa 2.500 miliardi di dollari di riserve minerarie non sfruttate, ndr).

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