Ambiente

La lotta geopolitica per accaparrarsi i minerali nell’oceano

Cina e Russia sfidano gli Stati Uniti, contendendosi le risorse presenti sui fondali marini nelle acque internazionali
Credit: Tom Fisk  

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29 marzo 2024 Aggiornato alle 18:00

La competizione serrata fra le maggiori Potenze mondiali si sta estendendo anche alle risorse custodite nei fondali marini, in particolare le terre rare e altri minerali che saranno fondamentali per l’innovazione industriale-tecnologica dei prossimi decenni e per sostenere la transizione energetica.

L’imperativo a impossessarsi di queste materie prime ha spinto gli Stati Uniti a rivendicare il diritto di sfruttamento di vaste aree marine collegate alla sua piattaforma continentale.

Una serie di zone stimate essere grandi il doppio dello Stato della California e che sono localizzate nell’oceano Pacifico, nell’Atlantico, nel Golfo del Messico e in altre regioni contigue agli Usa. Questa decisione presa nel dicembre scorso ha suscitato l’opposizione netta dei governi cinese e russo, che tramite i loro delegati hanno dichiarato illegali le azioni della nazione americana.

Secondo loro gli Usa non hanno il diritto di sfruttare questi fondali in quanto il Congresso non ha ancora ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), entrata in vigore nel lontano 1994.

La contestazione nelle sedi degli organismi internazionali ha suscitato l’allarme del corpo diplomatico e burocratico statunitense, che ha invitato urgentemente il Senato a ratificare la Convenzione prima che sia troppo tardi per impedire un’ulteriore estensione delle aree di influenza russo-cinesi grazie alla loro azione diplomatica.

Infatti nei prossimi mesi verranno discusse a livello multilaterale, tramite l’ente intergovernativo International Seabed Authority (Isa), le licenze da assegnare alle compagnie minerarie per esplorare e sfruttare i fondali marini.

La mancata ratifica di Washington rischia di escludere gli Usa da queste trattative: «Abbiamo già perso 2 dei 4 siti originariamente designati per noi nella negoziazione Unclos, ciascuno dei quali conteneva un valore stimato di 1.000 miliardi di dollari di rame, nichel, cobalto, manganese e terre rare. A meno che non ci muoviamo presto, corriamo il rischio di perdere i nostri due rimanenti siti designati», ha sottolineato l’ex vice Segretario di Stato repubblicano John Negroponte, mentre il rappresentante dello Stato della Virginia, Rob Wittman, ha ribadito che «la Cina e la Russia stanno rivendicando in modo aggressivo i minerali presenti su quei fondali. Non possiamo permettere che ciò accada».

La questione riveste un’importanza fondamentale per le economie avanzate, in quanto i minerali come cobalto, manganese o le terre rare, costituiscono un elemento necessario per l’elettrificazione di ogni comparto industriale e il dominio tecnologico nel campo delle energie rinnovabili e dei veicoli elettrici.

In questi 2 specifici settori da tempo la Cina ha instaurato una forte egemonia sull’intera filiera, cercando di escludere le nazioni occidentali dalle catene di approvvigionamento.

I funzionari dell’amministrazione Biden e le multinazionali americane vedono questa competizione serrata come una minaccia per la loro autonomia strategica a livello economico-tecnologico. «È una guerra, fa parte della politica delle grandi Potenze… ed è un’opportunità per essere “disruptive”», ha affermato Rebecca Pincus, direttrice del Polar Institute del Wilson Center.

La corsa per sfruttare le risorse degli oceani sta preoccupando profondamente le organizzazioni ambientaliste, che hanno chiesto ripetutamente di vietare la pericolosa attività del deep sea mining. L’estrazione dei minerali potrebbe provocare una catastrofe ambientale su larga scala, alterando gli ecosistemi locali con gravi conseguenze per la vita marina.

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