Economia

La diversità etnica produce ricchezza (anche economica)

In Ue serve più forza lavoro: in tre anni il tasso di posti vacanti è cresciuto dello 0,7%. È necessario aprire le porte delle proprie imprese agli Ethnocultural Minority Employees
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Azzurra Rinaldi
Azzurra Rinaldi economista
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26 marzo 2024 Aggiornato alle 06:30

Chi ha paura della sostituzione etnica dovrebbe starsene tranquillo. Secondo il Global Burden of Diseases, Injuries, and Risk Factors Study (Gbd) redatto dall’Università di Washington, già dal 2050 la popolazione mondiale inizierà ad affrontare una fase critica sotto il profilo demografico. Saremo sempre meno. Nel 2100, poi, il 97% dei Paesi (stiamo parlando di 198 Stati su un totale di 204 riconosciuti a livello mondiale) scenderanno sotto la soglia dei 2,1 figli per donna, necessari per “rimpiazzare” demograficamente quantomeno entrambi i genitori.


E nel 2100, saranno solo 3 i Paesi del continente africano che riusciranno a superare questa soglia, secondo le previsioni contenute nello studio: la Somalia (con 2,45 figli per donna), il Niger (con 2,24) e il Ciad (con “appena” 2,15).

Certo, una preoccupazione in meno per i sostenitori della sostituzione etnica, una teoria delirante secondo la quale sarebbe in atto un complotto internazionale per sostituire appunto le persone cosiddette “bianche” con quelle di altre etnie.

In realtà, sotto un profilo meramente economico, una grande occasione mancata. Perché, di fronte a un sistema globale in continuo mutamento, ancora una volta stiamo rischiando di perdere di vista il quadro più ampio che intreccia i diritti con l’efficienza economica.

Infatti, checché ne dicano questi signori, la diversità consente di produrre maggiore ricchezza, non solo culturale. Quantomeno, è quello che emerge (ancora una volta) dall’ennesimo studio a riguardo, quello elaborato e pubblicato da McKinsey con il titolo Ethnocultural minorities in Europe: A potential triple win.

Dati alla mano, questo report sottolinea in primo luogo che c’è un crescente bisogno di forza lavoro che, in Unione europea, non viene soddisfatto: la quota dei posti vacanti è cresciuta nel corso degli ultimi anni, passando dal 2,2% del 2019 al 2,9% del 2022. E non stiamo parlando solo dei tradizionali settori a basso valore aggiunto in cui convogliamo la forza lavoro straniera, come l’assistenza sociale o l’edilizia, ma facciamo riferimento anche a settori a elevato valore aggiunto, come quelli dell’ingegneria o dei software.

Allo stesso tempo, lo studio di McKinsey rivela la necessità di aprire il mercato del lavoro alle persone che appartengono a minoranze etnoculturali, identificate con la sigla Eme (Ethnocultural Minority Employees). Basandosi su dati raccolti in 150 multinazionali dislocate su Belgio, Italia, Danimarca, Francia, Germania e Paesi Bassi, la ricerca punta il faro sulla capacità produttiva che sarebbe associata a una maggiore occupazione delle persone appartenenti alle minoranze etnoculturali. Qualche esempio? Uno su tutti: il Pil europeo potrebbe aumentare del 4%, per un incremento di ricchezza dell’ammontare pari a 120 miliardi di euro.

Perché ciò avvenga, sarebbe necessario, certo, un cambio di passo prima di tutto culturale, una maggiore apertura in generale, meno diffidenza, meno rancore, quantomeno nel nostro Paese. Almeno, stando a quanto emerge dall’indagine di Ipsos per Amref Italia, Africa e salute: l’opinione degli italiani. Il report si basa su un questionario somministrato a un campione rappresentativo di 800 persone. Gli esiti sono sconfortanti.

Chiedendo la quota di cittadini africani sul totale degli stranieri, il 34% dei rispondenti sbaglia, perché ne sovrastima la presenza. Ben il 53% pensa che i cittadini africani residenti in Italia sono comunque troppi. E anche che non sono adeguatamente amalgamati con gli italiani. Ovvio, la colpa è loro, eh. Almeno, secondo il 31% delle persone intervistate, per cui la motivazione di questa segregazione deve essere ricercata nella “scarsa voglia di accettare gli usi e le consuetudini italiane da parte degli africani. A onor del vero, c’è anche un 16% che ritiene che l’ostacolo all’integrazione sia dovuto al fatto che “gli italiani sono razzisti”.

Ma vogliamo chiudere con un dato positivo? Per il 75% delle persone che hanno risposto alla survey di Amref, la cittadinanza italiana dovrebbe essere concessa automaticamente ai figli delle persone immigrate che siano nati in Italia o che vi siano arrivati entro i 12 anni e che abbiano frequentato regolarmente le scuole nel nostro Paese per almeno 5 anni.

Insomma, conservare una flebile speranza si può. E forse, se si vogliono cambiare le cose, come sempre, si deve.

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