Diritti

A cosa serve questo stillicidio di cronache di guerra?

Titoli a effetto, immagini violente, parole strazianti, notizie impossibili da verificare. È un pessimo esempio quello che ci sta dando il mondo dell’informazione. Non sarebbe meglio aiutare le persone a mobilitarsi, invece di scioccarle?
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20 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

“Stallo di sangue”, “Putin non sfonda dopo tre settimane di sangue e orrore”, “Le voci dei superstiti del teatro: ‘Salvi, ma la città non c’è più”, “Quei bimbi scomparsi nella nebbia della guerra”, “Il nostro futuro nei bunker”: questi sono alcuni dei titoli che si potevano leggere in un’unica edizione, cioè nello stesso giorno, di uno dei grandi giornali italiani (Repubblica) pochi giorni fa. E poi ancora, in un altro quotidiano, La Stampa: “Carri russi nel centro urbano, i ceceni pronti alla ‘pulizia’”, ma anche “L’asilo nel mirino”.

Ad analizzarli bene, non si tratta di titoli descrittivi, perché la notizia o non c’è o è confusa: non si sa cosa davvero è successo o semplicemente si annuncia qualcosa che resta un’intenzione (nel primo caso “Bimbi scomparsi nella nebbia”, nel secondo “Pronti alla pulizia”). Ciò che questi titoli vogliono ottenere con la ripetizione continua di sostantivi come “sangue e orrore” non è il racconto dei fatti ma un’emozione di angoscia senza fine, anzi, peggio, di panico in chi legge (come l’assurdo titolo “Il nostro futuro nei bunker”, che fa presagire un futuro distopico che a oggi non sussiste).

Si cerca il dettaglio più agghiacciante, i fatti più brutali da mettere in evidenza, a scapito delle notizie positive, a scapito del senso delle parole. Emblematico anche il titolo sui “superstiti” del teatro, che suggerisce che molti sono morti (non è vero, non ci sono stati morti), al quale segue una frase, “Ma la città non c’è più”, che nulla c’entra, oppure quello sull’asilo nel mirino, carattere gigantesco, e poi un sottotitolo che in piccolo dice: “Ma per fortuna non c’erano alunni”. Grottesco.

Per non parlare delle foto che si sono susseguite in questi giorni: senza alcun rispetto della deontologia, che esigerebbe rispetto delle vittime, queste ultime vengono esibite, sia con volto scoperto che quando sono poveri mucchi di resti. Emblematico il caso del settimanale Tpi: uscito venerdì con una copertina con la gigantografia della donna morta incinta e poi ovunque, dentro, foto di cadaveri disseminati e malati straziati e mutilati. “Non è fiction è realtà”, scrive il settimanale. Non è così. Perché come dimostra l’errore della Stampa che ha pubblicato in prima pagina corpi di civili uccisi e smembrati a Donetsk, spacciandoli per morti di Kiev, col titolo “La carneficina”, queste rappresentazioni non rispondono per nulla al dovere di cronaca, anche perché sono immagini impossibili da verificare. Paradossalmente, se l’obiettivo è suscitare emozioni di orrore, portare il lettore sul teatro di guerra, stordirlo con immagini di devastazione e morte, una vittima vale l’altra, persino se di un altro conflitto. Persino se finta. Fiction, appunto.

E che dire delle storie imbastite su vicende personali di immensa tragicità, come quella, a esempio pubblicata ieri, della donna morta di infarto dopo il viaggio per arrivare in Italia con i suoi bambini? Se ne fa una pagina, ricca di dettagli emotivi, che a questo punto lo stremato lettore, dopo tre settimane di guerra non ha più la capacità di assimilare.

A che serve tutto questo? Perché i principali giornali hanno deciso di mostrare le vittime accompagnandole da foto strazianti, quasi a raccontare la guerra in tempo reale come una tv, pur essendo invece carta stampata? Questo significa che le parole non servono più, sono morte, i giornali carta straccia. E che la ragione ha perso la sua funzione fondamentale, quella dell’immaginazione. Perché se io leggo la notizia di un bambino di 18 mesi ucciso, e delle circostanze in cui è accaduto, non c’è bisogno per me di vedere alcun video: lo vedo subito nella mente. Come vedo nella mente, e sento, le emozioni dei due bambini che hanno visto la madre accasciarsi scesa dal pullman, anche se la notizia fosse data in due righe. E non mi serve sapere com’erano vestiti quel giorno, non mi servono i dettagli morbosi.

Ma soprattutto tutto ciò ha effetti devastanti nelle persone, nei lettori. Assediati dalla guerra di immagini, veniamo presi o da una disperazione senza fine, come se fossimo noi sotto le bombe, come se stessimo noi vivendo quella violenza senza fine. Oppure, al contrario, si attiva una sorta di stordimento emotivo, anch’esso drammatico. Non sentiamo più niente, non riusciamo a elaborare più niente. In entrambi i casi, ci sentiamo annichiliti, impotenti, incapaci di agire.

Di nuovo: a chi serve tutto ciò? A cosa serve questa disperazione, o questo ottundimento emotivo? Aiuta gli ucraini, loro sì sotto le bombe? No. Serve a noi? Per nulla. Spinge a dare più fondi? No, paralizza e basta. Ciò che ci serve, e cioè che serve agli ucraini, non è la disperazione, ma l’azione. Mobilitarsi, mandare aiuti, mentre nel frattempo si cerca l’equilibrio difficilissimo tra una partecipazione emotiva inevitabile e la necessità anche per noi di continuare a resistere psichicamente. Peccato che giornali così non ci aiutino. Peccato che questa informazione prevalente la nostra ricerca di equilibrio la prenda a picconate, la renda ancora più difficile di quello che è. Qualcuno dovrebbe dirlo: questo modo di “raccontare” le notizie è inutile, sbagliato, non deontologico. Anzi, è a suo modo sciagurato, per non dire pure criminale, e aggrava, ripeto, la nostra situazione. Ci fa credere che più si grida, più si mostrano i corpi, più si aiutano le vittime. Non è vero. Un giornalismo così non è utile a nulla. Né a noi, né tantomeno a chi non c’è più, o sta lottando per sopravvivere.

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