Diritti

Quelle gallery sui corpi dei bambini

C’è un fronte silenzioso, in questa odiosa guerra, che non miete meno vittime: è l’esposizione mediatica dei più piccoli. Immagini strumentalizzate che finiranno in mano a criminali, offerte per propaganda o solo per macinare like. Una violazione palese, dice qui l’esperto di privacy, della tutela dei minori
Credit: Bernard Hermant, Unsplash
Tempo di lettura 5 min lettura
5 marzo 2022 Aggiornato alle 08:00

C’è un’altra guerra nella guerra che si sta combattendo in Ucraina.

È più silenziosa ma non è meno drammatica e non miete meno vittime.

È quella dei bambini nella dimensione digitale e mediatica.

Ed è una guerra che si combatte lungo due fronti.

Il primo è quello della strumentalizzazione, della spettacolarizzazione, dell’utilizzo esasperato, gratuito, inutile dei volti e dei dati personali dei bambini sui giornali, in televisione, nei social network e, ovunque, online.

Il secondo è quello della tempesta di immagini e parole, tutte egualmente crude, cruente, drammatiche che stanno travolgendo i più piccoli, in particolare nell’universo digitale, in queste ore.

Difficile dire quale sia il fronte più preoccupante, più grave, più allarmante.

Vediamo il primo.

“Mio padre è rimasto a combattere a Kyiv”, dice un bambino, con gli occhi gonfi di lacrime, in un video che rimbalza senza sosta sui social da giorni.

E immagini analoghe affollano ormai il nostro quotidiano mediatico.

Ci sono persino intere gallery, anche su quotidiani blasonati, di bambini in fuga dalla guerra o addirittura caduti in guerra.

I volti – riconoscibili tranne poche lodevoli eccezioni -, i corpi e i nomi dei bambini utilizzati come strumento di propaganda da una parte e dall’altra per recapitare messaggi politici e influenzare la formazione dell’opinione pubblica globale in una direzione o in quella opposta.

I volti, i corpi, le lacrime e la disperazione dei bambini in guerra utilizzati da associazioni di ogni genere per promuovere raccolte di fondi per le popolazioni colpite dalla guerra.

E gli stessi corpi, gli stessi volti degli stessi bambini condivisi milioni di volte nell’universo dei social network da ciascuno di noi, da gente comune, a supporto dei pensieri più diversi dettati, dal cuore, dall’anima o da questo o quell’interesse di parte.

Talvolta, chi utilizza queste immagini lo fa scientificamente per far leva sul comune senso di umanità delle persone e conferire più forza ed efficacia al messaggio o, anche, semplicemente, ed è, naturalmente, ancora più grave, per raccogliere click, tempo, attenzione degli utenti da rivendere ai propri investitori pubblicitari.

Talaltra le immagini e i nomi in questione finiscono online perché chi li pubblica non arriva a comprendere il disvalore del gesto, i rischi ai quali, con quella pubblicazione, si espongono quei bambini.

Eppure, i rischi in questione sono – o, almeno, dovrebbero essere – evidenti.

Quelle fotografie e quei dati, nella dimensione digitale, perseguiteranno quei bambini per sempre, saranno li a ricordare loro questo dramma quando, magari, il tempo avrà lenito, almeno in parte, le cicatrici che inevitabilmente la tragedia della guerra sta solcando profonde sulle loro anime.

E, magari, in molti casi li esporranno a conseguenze discriminatorie di carattere sociale, culturale, religioso o politico di ogni genere, conseguenze, forse, oggi, in molti casi persino imprevedibili.

Quelle immagini e quei dati, dobbiamo dircelo senza falsi pudori e reticenze, finiranno nei forum, nelle chat e nei canali attorno ai quali si ritrovano i pedofili del mondo intero, verranno utilizzati – grazie alle nuove tecnologie di deepfake – per produrre in laboratorio immagini pedopornografiche e – grazie alle nuove tecnologie di riconoscimento facciale – potrebbero consentire a ogni genere di criminale di rintracciarli, anche quando la guerra sarà finita, è approfittarsi di loro magari proprio facendo leva sulla tragedia che hanno vissuto.

E, certamente, quelle immagini finiranno in pasto a algoritmi di ogni genere per le ragioni più diverse.

Forse basta così per convincersi che pubblicare quei volti e quei dati, non ha importanza quanto nobile sia il fine perseguito, non ha senso, è sbagliato, è eticamente indifendibile ed è giuridicamente illegittimo.

È una di quelle circostanze nelle quali non dovrebbe servire una legge a vietare un comportamento.

Ma, in questo caso, la legge c’è.

La disciplina europea sulla protezione dei dati personali riconosce ai bambini una tutela rafforzata che può sintetizzarsi così: l’immagine riconoscibile e i dati personali di un bambino non dovrebbero mai essere diffusi al pubblico salvo che farlo non sia suo interesse e, comunque, con poche eccezioni, con il consenso libero dei genitori.

E, naturalmente, in nessuno di questi casi – specie davanti all’interminabile sequenza di rischi cui quella pubblicazione espone i più piccoli – l’interesse di un bambino coinvolto in una guerra come quella Ucraina è vedere la sua faccia, il suo nome e magari il suo cognome finire online.

Salvo, naturalmente, che non sia un bambino scomparso, disperso, rapito e pubblicare quella foto non valga ad agevolarne il ritrovamento.

Varrebbe la pena, quindi, provare a chiudere almeno questo fronte di guerra il prima possibile.

Basta foto con il volto riconoscibile dei bambini e niente loro dati personali in televisione, sui giornali e sui social network salvo a non esser certi che sia nel loro interesse.

E veniamo al secondo fronte.

I bambini europei di questo secondo ventennio del Duemila sono stati sfortunati.

In una manciata di anni hanno vissuto una pandemia e una guerra a un paio d’ore di volo da dove vivono.

Difficile sperare che tanto dolore e tanta sofferenza tutta insieme non abbia un impatto sul loro sviluppo.

E non c’è nessun dubbio che il sistema mediatico, specie nella dimensione digitale e dei social network nei quali, proprio la pandemia, li ha spinti a trasferire porzioni sempre più rilevanti della loro esistenza, sia un potente amplificatore di queste tragedie globali.

I bambini, ormai da giorni, assistono passivi a scene di guerra loro proposte attraverso tutti i canali digitali, scene che entrano nelle loro teste e nei loro cuori e lasciano, senza ombra di dubbio, un qualche segno.

Certo non si può – e non si deve – smettere di raccontare la guerra.

E, però, questo probabilmente non legittima nessuno a disinteressarsi completamente del problema che esiste e che è straordinariamente rilevante.

I media potrebbero certamente tener conto che, specie in alcune fasce orarie, è più facile che i loro contenuti incrocino lo sguardo dei più piccoli e le grandi piattaforme online – come, peraltro, in alcuni casi già fanno – potrebbero certamente fare di più perché certi contenuti non finiscano tra i contenuti troppo facilmente accessibili ai più piccoli.

Forse tanto basterebbe a chiudere anche questo secondo fronte di guerra.

Non aver rispetto per i bambini significa non aver rispetto per il futuro.