Economia

Settimana corta: le aziende temono il calo della produzione

I sindacati spingono per introdurla e alcuni studi, tra cui l’ultimo del Centro Ricerche dell’Associazione italiana direttori del personale, dimostrano che, a parità di salario, ridurre l’orario di lavoro non comporta una riduzione delle entrate economiche
Credit: cottonbro studio   

Tempo di lettura 6 min lettura
14 marzo 2024 Aggiornato alle 14:00

Dopo la pandemia, i lavoratori di tutto il mondo occidentale hanno compreso che il tempo è diventato la nuova moneta di scambio del nostro secolo.

In molti, infatti, hanno deciso di lasciare il proprio impiego, generando una forte ondata di dimissioni, e di cercare una nuova occupazione che consenta uno stile di vita diverso, dove lavoro e interessi personali siano meglio bilanciati.

Archiviato questo periodo, chi ha deciso invece di non lasciare il lavoro riflette su nuove modalità lavorative che riescano allo stesso modo a garantirgli un’equa distribuzione del tempo tra lavoro e vita privata. Per esempio, si discute ormai da tempo della possibilità di ridurre l’orario lavorativo senza nessuna conseguente riduzione della retribuzione.

Quello della settimana corta è un tema studiato e approfondito in tutto il mondo. Fra le sperimentazioni più importanti avvenute fino a oggi spicca quella coordinata dall’organizzazione non-profit 4 Day Week Global e dal centro studi britannico Autonomy (insieme ad altri gruppi di ricerca di eminenti università) condotto su 61 aziende con varie dimensioni e di settori diversi fra loro che ha coinvolto 2.900 dipendenti tra giugno e dicembre 2022.

In 6 mesi, le società coinvolte hanno sperimentato la settimana lavorativa corta di 4 giorni principalmente lasciando libero il venerdì e senza alcuna riduzione di stipendio e circa il 92% di loro ha dichiarato di voler mantenere questo modello.

La scelta di far diventare strutturale questa misura è motivata dal fatto che in tutto il periodo di test non solo le entrate economiche non hanno subito riduzioni, ma si è addirittura registrato un aumento medio dell’1,4%.

Il mantenimento o l’incremento della produttività derivano principalmente dai benefici che i dipendenti ottengono grazie all’aumento di tempo libero a loro disposizione, che gli consente di dare spazio ai loro interessi e affetti e di tornare sul posto di lavoro più soddisfatti e con una riserva di energia maggiore.

Lo si deduce chiaramente dai dati emersi a livello di organico, in cui il 39% dei dipendenti ha dichiarato di essere meno stressato e il 71% aveva ridotto il rischio di burnout lavorativo, approfittando dei giorni di libertà ottenuti grazie alla sperimentazione.

Il tema del benessere mentale, infatti, è sempre più al centro delle esigenze dei lavoratori sia in sede di assunzione ma anche in corso di rapporto, con un notevole costo per i servizi sanitari nazionali, famiglie e le stesse imprese. Secondo la società di consulenze Deloitte il costo annuale dei problemi di salute mentale per i datori di lavoro nel solo Regno Unito ammonta a circa 45 miliardi di sterline, spesi per il turnover del personale legato alla necessità di sostituire i colleghi assenti perché malati, oltre alla necessità di riparare i danni di chi, sebbene presente sul posto di lavoro, mostri notevoli problemi di produttività proprio per via del suo precario stato psicologico.

L’introduzione di un periodo lavorativo breve, di 4 giorni e non di 5, ha convinto anche il 79% dei direttori del personale coinvolti in un sondaggio curato dal Centro Ricerche dell’Associazione italiana direttori del personale, oltre a essersi ormai inserito fra le principali richieste avanzate dalle sigle sindacali più importanti in sede di rinnovo dei contratti nazionali di lavoro, riuscendo spesso a suscitare la curiosità di grandi dirigenti d’azienda.

Già dal novembre 2022, il Gruppo Lavazza ha previsto un’uscita anticipata il venerdì per un periodo di 15 settimane, oltre a 10 giorni di smart working mensili e 16 ore di attività di assistenza dei familiari e congiunti.

Anche EssilorLuxottica, colosso italiano dell’occhialeria, ha firmato un accordo sindacale sul nuovo contratto aziendale per il triennio 2024-2026 che introduce nelle sue fabbriche italiane proprio la settimana corta, con 20 giornate all’anno (per lo più il venerdì) che i quasi 15.000 lavoratori potranno ritagliare per sé aderendo volontariamente e a parità di stipendio, il quale verrà garantito grazie al contributo dell’azienda e in via residuale da istituti individuali, senza impatti sulla retribuzione.

A dicembre del 2023 anche un altro marchio storico del made in Italy come Lamborghini ha firmato, insieme alle rappresentanze sindacali, un nuovo contratto integrativo che prevede una rimodulazione dell’orario lavorativo in cui si alterna una settimana da 5 giorni e una da 4, con un totale di 22 giornate di lavoro in meno ogni anno per i dipendenti che lavorano 2 turni (mattina e pomeriggio) e di 31 per chi è presente in fabbrica anche la notte. Non propriamente una settimana corta, dunque, ma un complessivo ripensamento del sistema dei turni, nel tentativo di gestire in modo differenziato e flessibile la presenza dei dipendenti della casa automobilistica.

Sperimentazioni anche nel settore bancario, dove a gennaio del 2023 Intesa Sanpaolo ha introdotto un modello organizzativo di 4 giorni e 9 ore lavorative per i suoi 74.000 dipendenti, a parità di retribuzione e su base volontaria, attirando l’attenzione di ben 28.500 bancari che ne hanno fatto richiesta.

Ancora sotto valutazione, seppure con buone prospettive, la sperimentazione proposta dalle sigle sindacali di riferimento (Slp Cisl, Slc Cgil, Uilposte, Confsal, Failp Cisal e Fnc Ugl) per una settimana corta anche nel nuovo contratto per i 120.000 lavoratori di Poste Italiane, per i quali «occorre sperimentare nuove forme di organizzazione del lavoro che prevedano riduzioni dell’orario a parità di salario» anche in vista di una massiccia implementazione della tecnologia, l’intelligenza artificiale fra tutte.

Nonostante le più recenti applicazioni della settimana corta abbiano dimostrato ottimi risultati, tanto da portare l’Islanda a giudicarlo un successo travolgente dopo averlo sperimentato in ospedali, scuole e operatori dei servizi sociali e recentemente esteso all’86% della forza lavoro nazionale, è proprio il tema della produttività a non convincere a pieno le aziende, che temono un calo nella produzione collegato proprio alla riduzione dell’orario di lavoro.

Eppure, gli standard produttivi italiani soffrono di problemi ben maggiori.

Stando ai dati Istat, infatti, nel periodo tra 2014 e 2022 la produttività del lavoro in Italia è aumentata solamente dello 0,5% medio annuo, con una modesta contrazione del divario di crescita rispetto ai livelli registrati nel resto d’Europa (+1,3%), fino addirittura a ridursi dello 0,7% nel 2022 a fronte proprio di un incremento delle ore lavorate più forte di quello del valore aggiunto (ossia +4,8% e +4,1%).

Additare una possibile riduzione della settimana lavorativa quale fonte di rischio per la produzione appare dunque un tentativo di non prestare attenzione alle radici più profonde della bassa produttività italiana, che da decenni fa crescere il nostro Paese molto più lentamente di altri Paesi del sud dell’Europa come Portogallo, Spagna e Grecia.

Leggi anche