Culture

“La sala professori” e il fallimento del sistema educativo

L’ultima fatica cinematografica di Ilker Çatak porta sul grande schermo le falle di una scuola media pubblica. Cosa resta da fare quando alle istituzioni non importa dell’educazione dei ragazzi?
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15 marzo 2024 Aggiornato alle 07:00

La sala professori, già presentato durante la 73° Berlinale e candidato come miglior film straniero agli Academy Awards 2024, racconta le vicende di una professoressa di una scuola media, Carla Nowak (Leonie Benesch), alle prese con un evento piuttosto insolito che si consuma sul suo posto di lavoro.

Dopo ripetute denunce di furti, soprattutto a danno dei professori, la scuola media in cui Carla insegna decide di avviare alcune indagini, in maniera sommaria e approssimativa, coinvolgendo i ragazzi stessi.

I metodi che i colleghi della protagonista usano non sono tra i più convenzionali: decidono, infatti, di interrogare i ragazzi e fare in modo che la verità venga fuori con una pressante serie di domande, cosa che porta gli studenti, di fatto, a “fare la spia” sui propri compagni di classe.

I ragazzi interrogati si basano perlopiù su sospetti che hanno: nessuno ha mai visto niente e nel frattempo continuano a sparire soldi e altri oggetti personali appartenenti ai professori.

Nowak non condivide questo metodo inquisitorio, dato che porta i ragazzi, necessariamente, a parlare male dei propri compagni; pur avendo espresso il proprio dissenso, la professoressa rimane inascoltata mentre i colleghi proseguono le loro ricerche.

Fin dalle prime scene del film si capisce chiaramente che le indagini sono alimentate anche da moventi razzisti, che all’interno della scuola sembrano essere tranquillamente condivisi dalla maggior parte dei professori.

Di punto in bianco, infatti, viene istituito un vero e proprio raid durante l’ora di matematica di Nowak per interrogare Ali, un giovane studente immigrato la cui unica colpa era avere una quantità di soldi nel portafogli maggiore rispetto al resto della classe.

Per quanto la professoressa sottolinei i metodi brutali con cui la scuola decide di affrontare la vicenda, comunque il resto del corpo docenti non ha intenzione di smettere; è solo quando Nowak avrà prove concrete di chi stia commettendo questi furti che, allora, su di lei ricade tutta l’attenzione della scuola.

Quando la professoressa lascia aperta la videocamera del proprio portatile in sala professori scopre, infatti, che si tratta di un’altra figura appartenente al corpo docenti a dover essere incolpata.

Questo scatena una serie di eventi a catena che culmineranno con litigi e dure prese di posizione da parte dei docenti e dei genitori degli alunni della scuola. Carla Nowak si distingue dal resto dei propri colleghi soprattutto per la propria concezione di scuola: se per tutti gli altri, come si vede dalle riunioni e dai dibattiti interi, gli studenti, alla fine, sono solo un numero, per Carla non è affatto così.

La professoressa insiste molto su come la scuola, in quanto istituzione incaricata di fornire un’educazione a quelli che saranno futuri cittadini del mondo, debba lavorare sul margine di miglioramento dei ragazzi e non considerarli immediatamente casi persi da trasferire in altre realtà.

Quando il clima quotidiano diventa invivibile per studenti e alunni – soprattutto per il giovane Oskar, figlio della professoressa che ha compiuto i famigerati furti – la preside crede che la soluzione migliore sia trasferire il ragazzo, che, per quanto possa aver avuto comportamenti sbagliati, alla fine ha solo reagito di conseguenza a tutto il bullismo ricevuto dal resto dei compagni.

Nowak parla di vero e proprio fallimento delle istituzioni, che altro non hanno fatto che contribuire a creare un costante terrore psicologico sugli studenti e che, spostando il problema da un’altra parte, credono di averlo risolto.

Non è un caso che, da un punto di vista scenografico, Carla sia sempre la persona che in sala professori si trova in piedi o si alza e se ne va; compiendo costantemente, anche con il proprio corpo e in maniera involontaria, un movimento opposto a quello del resto dei docenti.

Attraverso una accurata serie di scelte registiche, Çatak mette bene in scena il senso di chiusura e soffocamento che la scuola imprime su chi vi lavora dentro; servendosi di close-ups e inquadrature a mezzo busto, mette lo spettatore nella posizione privilegiata di chi osserva le vicende da molto vicino e, contemporaneamente, toglie spazio di azione ai personaggi sullo schermo, che si ritrovano a muoversi in ambienti molto stretti e angusti, dati anche dal formato in 4:3 della pellicola.

La maggior parte delle riprese, realizzate con la macchina a mano, alimentano l’agitazione e il senso di disorientamento dato dalle confusionarie vicende di cui Nowak si rende involontariamente protagonista e tutto questo contribuisce a trasmettere un senso di agitazione sullo spettatore.

Sono, però, le sequenze finali quelle che più restano impresse e impattano gli occhi di chi guarda: si susseguono una serie di riprese della scuola vuota, senza docenti e senza alunni. In pochi minuti Ilker Çatak sintetizza tutto quello per cui Carla Nowak ha combattuto nel corso del film: con il termine “scuola”, per quanto spesso si intenda l’edificio in sé, in realtà si fa riferimento a una realtà di persone molto specifica e senza di queste, semplicemente, non esisterebbe.

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